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Channel: Jóhanna Sigurðardóttir – Pagina 13 – eurasia-rivista.org
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CLAUDIO MOFFA, ROMPERE LA GABBIA. SOVRANITÀ MONETARIA E RINEGOZIAZIONE DEL DEBITO CONTRO LA CRISI, ARIANNA EDITRICE, BOLOGNA 2014

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La “gabbia” che Claudio Moffa col suo saggio pubblicato da Arianna Editrice invita a “rompere” non è quella dell’euro, se con ciò s’intende una ‘romantica’ operazione di “ritorno alla lira”.
Come recita il sottotitolo nella copertina di Rompere la gabbia, la questione cruciale è quella della sovranità monetaria, che il docente di Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici all’Università di Teramo auspica venga ristabilita al più presto, in Italia e negli altri Paesi occidentali, per uscire dall’attuale “crisi”.

Esiste tuttavia un ostacolo insormontabile: la mancanza di volontà da parte di un ceto politico ed una classe dirigente che nel migliore dei casi, quando non si tratta di personaggi collusi e a libro paga, s’illudono che l’attuale abnorme finanziarizzazione dell’economia e della vita degli Stati nel suo complesso possa durare ancora a lungo senza ridurre la stragrande maggioranza nelle persone in una schiavitù che la ‘gabbia’ del titolo di quest’opera evoca al meglio.

Per procrastinare quest’inevitabile esito, già in parte realizzatosi, questi cosiddetti politici delle moderne “democrazie”, su imbeccata dei loro padroni e dei media di loro proprietà, si sono inventati l’ondata di “antipolitica” e la “crisi”.
Ma la “crisi” non è il risultato di “sprechi” e “ruberie” (che pure ci sono), come vorrebbe farci intendere anche tutta una saggistica interessata che ha preso a bersaglio l’ormai celebre “casta” e non il mondo della grande finanza speculativa.
Perché se di “casta” si deve parlare, essa va cercata tra quell’élite, invero ristretta e potentissima, dei “signori del denaro”. Di coloro che detengono – dopo averlo servizievolmente ricevuto “a termini di legge” – il potere di emissione, vera chiave di volta dell’intera economia moderna (ma a ben considerare dell’economia d’ogni tempo e luogo, tant’è che l’Autore passa in rassegna – cap. 4 – alcuni esempi storici che ben mostrano l’attenzione che i governanti hanno sempre dedicato a tale problematica).

La domanda che nessun grande “esperto” dei media e dell’università (peraltro sempre più sotto il controllo del capitale finanziario stesso) osa mai porre è infatti la seguente: “Di chi è la moneta?”. E, nello specifico di noi italiani ed “europei” dopo oltre dieci anni di “moneta unica”: “Di chi è l’Euro”?
A questa fondamentale domanda, dopo l’eccezione in ambito accademico del defunto prof. Giacinto Auriti, il saggio di Claudio Moffa (http://www.claudiomoffa.it/), che riunisce anche alcuni suoi interventi preparati per le varie edizioni del “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente” (http://www.masteruniteramo.it/), offre una chiara ed esaustiva risposta. L’Euro, tanto per cominciare, non è degli Stati che vi aderiscono, ovvero dei cittadini che da quelli dovrebbero essere rappresentati e difesi, bensì di una ristretta cricca di banchieri privati che controllano il cartello di banche “nazionali” denominato BCE.

Attraverso spiegazioni lineari che hanno anche il pregio di una provvidenziale ripetitività (importante per chi è a digiuno di tali argomenti), l’Autore giunge ad una sconcertante verità: l’Euro è di fatto una moneta straniera!
Che conseguentemente gli Stati (o quel che ne resta una volta spogliati della sovranità monetaria) dell’Unione Europea che l’hanno sottoscritto devono letteralmente acquistare a fronte dell’emissione di titoli del “debito pubblico” gravati da interesse. Come non può aumentare il “debito” in simili condizioni (p. 110)? E come non possono aumentare, in simili condizioni, le famigerate tasse?

Ma la BCE – che è il coronamento di una manovra che parte da lontano e che per quanto riguarda l’Italia consiste in una successione di eventi che questo libro ripercorre nella loro perfidia – crea denaro dal nulla (M. Allais), nel senso che per essa il denaro, offerto come una vera e propria “merce”, ha praticamente un costo irrisorio, sebbene la differenza tra quello ed il valore facciale impresso (da 5 a 500 euro) garantisca il famoso reddito da signoraggio.

Ora, su quest’ultimo termine (come su tutto ciò che si discosta dalla versione ufficiale ammessa dal sistema vigente politico-mediatico-culturale) è stata fatta scendere una coltre di discredito e di dileggio, ma se solo si presta attenzione alle dichiarazioni di alcuni protagonisti delle manovre che hanno prodotto l’attuale indecente ed immorale stato di cose (per esempio Andreatta o Soros), ci si rende conto che sono gli stessi “signori del denaro” ed i loro incaricati a riconoscere l’esistenza – e la redditività! – del signoraggio.

Il libro del prof. Claudio Moffa (che non a caso ha sempre invitato a collaborare “al di fuori degli schemi”) è anche un appello appassionato (e sicuramente inascoltato) alla cosiddetta “sinistra” affinché prenda atto che la battaglia per la sovranità monetaria non ha “colore”. Essa, anzi, è oggi “la” battaglia per antonomasia, in una situazione nella quale ogni “manovra” ed ogni provvedimento economico di qualsiasi governo che abbia aderito all’euro è destinato all’inevitabile fallimento poiché lo strumento monetario è completamente fuori dal suo controllo.
Né ha alcun senso vedere ancora, come se ci trovassimo cinquant’anni fa, sedersi al “tavolo delle trattative” sindacati e “datori di lavoro”, quando la proporzione tra capitale finanziario-speculativo e capitale produttivo è passata, dal 3% che era nel 1973, ad un inaccettabile 2000% nel 2010 (cioè, un rapporto di 20 a 1!).

Eppure, non è sempre andata così. Ci si è arrivati un po’ per volta. Ma se dobbiamo individuale una sorta di “big bang” lo si può fissare al 1694, con la creazione della Banca d’Inghilterra, che già Marx (al quale Moffa dedica un capitolo per mostrare come i suoi scritti giovanili tenessero nel debito conto il peso del capitale finanziario nella spirale di alienazione e sfruttamento delle classi lavoratrici) aveva indicato come una truffa ai danni dello Stato, di lì in poi “mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta”, il “debito” contratto coi banchieri privati crescendo indefinitamente (cap. 5).

L’eterno conflitto tra “produttori” (insomma, chi lavora e perciò produce ricchezza) e “speculatori” non era dunque ignoto ad un pensatore ed agitatore che ha condizionato generazioni di politici e studiosi, i quali però – complice anche una successiva svalutazione del fenomeno usurario dello stesso Marx, denunciata da Moffa – si sono incartocciati nelle varie “scuole” del Marxismo, che hanno focalizzato l’attenzione su un conflitto – quello tra “padroni” e “proletari” – che obiettivamente non spiega se non solo alcuni aspetti marginali delle moderne dinamiche economiche (e politiche).

Il libro, tra le altre cose, invita a riflettere sul fatto che esiste una notevole differenza, anche etica, tra capitale produttivo, destinato agli investimenti (ed ai rischi ad essi connessi), e capitale finanziario-speculativo.
Così si spiega la fondamentale convergenza di Cristianesimo ed Islam, uniti nella condanna del prestito ad interesse, mentre proprio l’usurocrazia apolide punta a fomentare lo scontro tra queste due tradizioni religiose.
E così trova un suo perché “un’imprenditoria etica, animata dall’obiettivo di costruire il benessere del popolo italiano”, in opposizione ai “capifila del non ancora maturo e ‘libero’ (meglio sarebbe dire ‘eversivo’) mondo bancario” (p. 127), che vide protagonista Enrico Mattei. Il quale poté svolgere la sua azione nazionale ed internazionale, ispirata ai suoi ideali cattolici (e, perché no, alla sua giovanile formazione fascista), grazie a alla presenza di un capitale produttivo ancora nettamente preponderante rispetto a quello finanziario-speculativo e, soprattutto, nelle salde mani dello Stato italiano.

Oggi, invece, dopo il suo assassinio (e quello, altrettanto significativo dal punto di vista che stiamo trattando, di Aldo Moro), lo Stato è stato assaltato, conquistato e svuotato da una banda di “camerieri dei banchieri” (per dirla con Ezra Pound) che in Italia, giusto per riassumere le date salienti, hanno agito nel modo che andiamo ad esporre.
Premesso che l’Italia, seppur sconfitta militarmente e perciò occupata, aveva mantenuto una sua sovranità monetaria (legge fascista del 1936 che definiva la Banca d’Italia, monopolista dell’emissione, un “istituto di diritto pubblico”; 1945-1948: sostanziale “continuità” rispetto al Ventennio; fino a tutti gli anni Settanta: emissione di biglietti di Stato a corso legale, quindi reddito da signoraggio nelle casse dello Stato), questi sono i momenti cruciali di quello che solo un osservatore prevenuto non può riconoscere come un complotto ordito ai danni della Nazione:
– 1981: “divorzio” del Tesoro dalla Banca d’Italia (sulla base di un mero scambio di lettere!), preceduto da un tam tam mediatico sulla necessità della “autonomia della Bd’I”. Si noti per inciso che più è aumentata la “autonomia” della Bd’I, più il cosiddetto “debito pubblico” è cresciuto…

– Il 1992 – che è quello di “Mani Pulite” – è l’anno del golpe: in rapida successione avvengono la privatizzazione della Bd’I (che sancisce la fine della nostra sovranità monetaria); il perfezionamento del suddetto “divorzio” da parte del ministro Guido Carli; le privatizzazioni del governo Amato previa trasformazione degli Enti pubblici in S.p.A.; senza contare la svalutazione della lira (governatore Carlo Azeglio Ciampi) ed il famoso ‘seminario’ sul panfilo della regina d’Inghilterra “Britannia”.

– 1993: abolizione del Ministero delle Partecipazioni Statali (i famosi “carrozzoni”…), mentre lo ‘spettacolo’ degli avvisi di garanzia veniva proiettato nelle case degli italiani.

È facile (ed irritante) osservare la rapida successione temporale di questi eventi rispetto all’accelerazione del processo di “integrazione europea” (trattati di Maastricht e Lisbona, opportunamente citati in appendice per sottolinearne l’assoluta obbedienza ai diktat della finanza speculativa a tutto danno del “lavoro”, che evidentemente non interessa affatto ai fautori della UE).
Una volta infilatisi nei gangli dello Stato, i suddetti “camerieri” traditori hanno svenduto, in nome del “libero mercato” (ma ai loro amici), l’industria pubblica strategica italiana, come ha scritto ed argomentato magistralmente Antonio Venier in un altro libro che tutti – specialmente chi ha ancora un residuo amor di Patria – dovrebbero leggere e meditare: Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione (Edizioni di Ar, 1999, con presentazione di Bettino Craxi).

Ma a proposito di “libero mercato” c’è da ricordare ai suoi indefettibili ammiratori che l’esperienza di questi ultimi vent’anni ha evidenziato come la “libera impresa”, che è senz’altro un valore da tutelare ed incoraggiare, non ha alcuna speranza di sopravvivere in un regime di “libera speculazione”.

Per questo, il saggio di Claudio Moffa, che dovrebbe finire sul tavolo di tutti i politici assieme a quello di Venier se questi non fossero intenti da mane a sera a venderci ai loro padroni, si conclude idealmente con una dichiarazione che è una sorta di parola d’ordine: “Libera impresa in libero Stato padrone dell’emissione monetaria” (p. 159).
La “autonomia” dell’istituto di emissione (prima la Bd’I ed ora la BCE) ha solo posto le premesse della “crisi”, di una crisi finanziaria che a sua volta, poiché i ‘rubinetti’ della cosiddetta “liquidità” sono in mani private che li aprono discrezionalmente per ottenere risultati politici, è con ogni evidenza una crisi produttiva, tra le cui concause, stabilito che la prima è l’assenza di sovranità monetaria, possiamo annoverare la “libera circolazione di merci e uomini” e le purtroppo celebri “delocalizzazioni”.

In questo quadro che ha bisogno solo di una salutare scossa, ogni misura presa dai vari governicchi che si succedono, dagli “interventi correttivi” agli “aggiustamenti fiscali”, dalle “detrazioni” agli “incentivi”, è pura fuffa, perché rebus sic stantibus questa situazione – che genera solo povertà ed insicurezza (Moffa parla di “via giudiziaria al pauperismo” opposta ad un ragionevole “progresso” sociale ed economico) non può che riprodursi all’infinito, stringendo sempre più il cappio dell’usura attorno al collo di imprese e famiglie.

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ANDREJ KORTUNOV: DUE LEZIONI CINESI PER LA RUSSIA

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In Russia è di moda vedere il modello di sviluppo cinese come una success story di modernizzazione “non occidentale”. E la crisi ucraina e la guerra delle sanzioni con l’America e l’Europa non fanno che stimolare l’interesse per questa esperienza ricca ed istruttiva. Ma quanto appropriate sono le nostre conclusioni sull’esperienza cinese? Siamo realmente in grado di comprendere le cause dei successi e degli insuccessi della modernizzazione cinese? Su questo proposito non mancano i dubbi. Analizziamo, pertanto, due momenti chiave della storia cinese.

A cavallo tra i secoli XVII e XVIII, mentre la Russia era governata dai Romanov, in Cina imperava la dinastia mancese dei Qing. In quegli anni, quasi in contemporanea, sedevano al trono due dei più grandi rappresentanti di queste dinastie: in Russia lo Zar Pietro il Grande (durata del regno 1682-1725), e in Cina l’Imperatore Kangxi (durata del regno 1662-1722). I due regnanti avevano molti lati in comune. Entrambi furono dei governanti forti e autoritari, lottarono con successo contro la vecchia aristocrazia, divennero celebri come saggi amministratori e infaticabili riformatori, furono assorbiti da grandi progetti edilizi ed allargarono in modo significativo i confini dei loro Paesi.

Tra i due, però, c’era una sostanziale differenza. Pietro I fu un deciso sostenitore dell’europeizzazione della Russia, dello sviluppo dei rapporti commerciali con i vicini occidentali e dell’introduzione nella vita sociale russa di tradizioni, costumi e persino mode provenienti dall’Occidente. Kangxi, al contrario, pur interessandosi alle scienze straniere, non solo mantenne l’isolamento cinese nei confronti del resto del mondo, ma ufficializzò questo status, e, quando nel 1793 il diplomatico britannico Lord George McCartney giunse in Cina per aprire il Paese al commercio con l’Europa, la risposta fu che “il Celeste Impero è sufficientemente ricco e autosufficiente e pertanto non ha bisogno di commerciare con l’estero”. Alla politica della “sostituzione delle importazioni” si aggiunsero, alla fine dell’impero di Kangxi, le aggressioni ai danni dei missionari occidentali. Questo isolazionismo incontrò il pieno sostegno sia della nobiltà mancese sia degli intellettuali di etnia Han.

Il seguito è ben noto. La storia di questi due grandi imperi prese due strade completamente differenti. Nel corso dei secoli XVIII e XIX la Russia visse una fase di rapido sviluppo ed entrò prima nel novero delle grandi potenze europee e poi nell’empireo di quelle mondiali, riuscendo con successo ad accorciare il divario che la separava dai Paesi più sviluppati. E questo fino alla catastrofe della Prima Guerra Mondiale. La Cina dei Qing, al contrario, col passare del tempo si trasformò in un Paese arretrato e perse il suo tradizionale status nelle relazioni internazionali. Quando alla fine Pechino fu costretta ad aprire i suoi confini agli stranieri, lo fece in condizioni per essa sfavorevoli e umilianti. Nell’arco di un secolo e mezzo-due, a causa dell’isolazionismo, la Cina si sarebbe trovata sull’orlo di una catastrofe nazionale.

Ora spostiamoci verso un passato non molto lontano. Il 4 giugno 1989, nella piazza pechinese di Tienanmen, le proteste degli studenti di opposizione furono represse nel sangue, provocando centinaia di morti. Il G7, guidato dagli Stati Uniti, introdusse una serie di dure sanzioni contro Pechino. I contatti ad alto livello e la cooperazione in ambito militare furono interrotti, e una serie di relazioni economiche e di investimenti vitali per la Repubblica Popolare fu congelata. La maggior parte dei politici e degli ufficiali della Cina popolare non celò il proprio turbamento e la propria indignazione nei confronti dell’Occidente, e a Pechino si diffuse la convinzione che le riforme economiche andassero immediatamente sospese, che alle sanzioni bisognasse rispondere con altre sanzioni e che la politica delle “porte aperte” fosse stata un errore, se non addirittura un danno per il Paese. Il Segretario Generale del Partito Comunista Cinese Zhao Ziyang fu sollevato dal suo incarico e posto agli arresti domiciliari per il suo eccessivo liberalismo. E i conservatori assaporarono quella vittoria sui riformisti da tanto attesa.

Tuttavia Deng Xiaoping, il grande artefice delle riforme cinesi, pur abbandonando ogni incarico ufficiale, riuscì a ottenere il mantenimento della sua linea politica. E questo malgrado le pressioni provenienti da militari, funzionari di partito e ideologi di orientamento conservatore. Malgrado le umilianti sanzioni occidentali e la campagna anticinese senza precedenti orchestrata dai mezzi di comunicazione europei e nordamericani. Malgrado i rischi sociali e politici connessi alla prosecuzione del cammino delle riforme. Le frange conservatrici del governo cinese ottennero alcune vittorie tattiche, ma non riuscirono a ricondurre il Paese verso una nuova fase di autoisolamento, e in generale Pechino non si lasciò trascinare dalle emozioni dell’epoca: non furono adottate sanzioni di risposta contro l’Occidente, non si tornò agli anni delle grandi mobilizzazioni (come il celebre Grande Balzo in Avanti, nda), e la politica delle “porte aperte” fu mantenuta.
Gli esiti di questa scelta fanno ormai parte della storia. La Cina è ormai diventata la seconda economia mondiale, e già oggi il Paese supera gli Stati Uniti per volume di scambi con l’estero. Nel contempo, però, la Cina non ha perso né il suo carattere nazionale, né la sua identità culturale, né le peculiarità del suo sistema politico. E sono in pochi, oggi, a ricordare le sanzioni del 1989.

Pur tenendo presenti le differenze tra i nostri Paesi e le nostre società, queste due lezioni di storia cinese restano molto importanti per la Russia di oggi. La Russia si trova attualmente dinanzi ad un bivio storico tra il cammino dell’Imperatore Kangxi e quello del comunista riformatore Deng Xiaoping. La linea dell’imperatore è maggiormente comprensibile e foriera di speranze per l’attuale gruppo dirigente russo e per la maggior parte della popolazione del Paese. Il percorso del riformatore presenta invece una serie di rischi tattici e non mancherà di incontrare oppositori. Arroccarsi sulle proprie ragioni e nell’orgoglio della propria preminenza storica è sempre più semplice che adattarsi a una realtà difficile e spesso ingiusta, e quindi alle ostilità del mondo esterno. Ma la storia della Cina consente di comprendere chiaramente qual è il percorso che conduce alla leadership mondiale e quale a un vicolo cieco di proporzioni storiche.

Traduzione a cura di Giuseppe Cappelluti.

*Andrej Kortunov è il Direttore Generale del Consiglio Russo per gli Affari Internazionali (RCMD).

Fonte: http://www.vedomosti.ru/opinion/news/33279931/dva-kitajskih-uroka-dlyarossii?full#cut

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SCANDALO INTERNAZIONALE? DISCRIMINAZIONE PER GLI ABKHAZI

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Scandalo internazionale? Sì, uno scandalo internazionale che coinvolge la città della Pace di Assisi ed anche lo storico Convitto Nazionale “Principe di Napoli”. Uno  scandalo organizzato dal Consolato d’Italia a Mosca e dalla nostra Farnesina, con il rifiuto della concessione dei visti per studio a sette studenti provenienti dalla Repubblica della Abkhazia, che si erano iscritti al Convitto Nazionale per seguire corsi di letteratura italiana e direzione aziendale per il turismo. Con pretesti spesso grotteschi e futili il consolato italiano a Mosca ha rifiutato i visti, pur in presenza di una documentazione precisa e chiara. Gli studenti non sarebbero venuti in Italia per iscriversi all’università o ad istituti superiori, in quanto non in possesso delle dichiarazioni di valore per i propri diplomi, ma per frequentare corsi ad hoc organizzati dal convitto. Gli studenti, in possesso di legale passaporto russo, hanno ottenuto il rifiuto in quanto Abkhazi. Si tratta quindi di una discriminazione razziale e politica a scapito di giovani studenti colpevoli solo di essere Abkhazi. Una vergogna assoluta, alla quale va sommata l’altra vergogna delle pressioni rivolte dalla Farnesina, dalla Presidenza del Consiglio, affari regionali ecc. verso l’amministrazione della città di Assisi, rea di aver sottoscritto un protocollo di amicizia con una città abkhaza, Gagra. Questo protocollo, uno tra i tanti già sottoscritti da altre città italiane, andava verso l’amicizia, la tolleranza ed il rapporto tra le genti; fatto particolarmente rilevante, era stato firmato dalla città di San Francesco, emblema mondiale della pace e della convivenza religiosa e civile. Non si può e non si deve stare in silenzio davanti a questa barbarie politica del nostro Ministero degli Esteri e del Consolato italiano a Mosca. Se si pensa che, per la prima volta dopo cento anni, il Convitto avrebbe ospitato delle ragazze, si può ben comprendere l’offesa subita dalla città di Assisi.
Per questo e su questi temi, alle ore 12,00 di venerdi 19 settembre, ad Assisi, presso la sala conferenze dell’Hotel Cristallo, avrà luogo una conferenza stampa organizzata dalla rappresentanza ufficiale in Italia della Repubblica della Abkhazia, con la partecipazione di esponenti politici e della società civile di Assisi.

Mauro Murgia
Rappresentante ufficiale in Italia per la Repubblica della Abkhazia.

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IL VERTICE EUROASIATICO DI MILANO CONFERMA CHE IL MONDO SI TROVA AD UNA SVOLTA

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Un grande successo per il Vertice dell’Asem svoltosi il 16 e il 17 ottobre a Milano, alla presenza di tanti capi di Stato e di Governo stranieri, che ha consentito all’Italia di ritagliarsi un’importante vetrina internazionale anche in vista dell’EXPO 2015.

Culmine delle due giornate sono stati sicuramente gli accordi per 8 miliardi di euro firmati tra Roma e Pechino (1), che in prospettiva consentiranno di riequilibrare almeno dal punto di vista geoeconomico l’influenza statunitense sul nostro paese.
Nonostante le pressioni di Washington (2), difficilmente poi gli esecutivi italiani potranno tornare indietro dal cammino intrapreso, a meno di non voler compromettere definitivamente il già precario equilibrio economico dell’Italia.

L’incontro dell’Asem ha infatti ribadito la differenza tra due modelli di sviluppo ormai inconciliabili, quello speculativo della finanza anglosassone – responsabile della crisi strutturale mondiale del 2008 – e quello delle potenze eurasiatiche – Cina, Russia e India in primis – basato sull’economia reale e produttiva.

I dati raffigurati nella tabella in allegato (3) dimostrano chiaramente le potenzialità, ancora largamente inespresse, di un rapporto più stretto tra Europa ed Asia.

dati-asem

Le manovre di disturbo condotte dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti difficilmente potranno rallentare a lungo questo percorso naturale; le stesse recenti manifestazioni anti-cinesi, iniziate subito dopo l’annuncio della fusione della Borsa di Hong Kong con quella di Shangai (e potenzialmente con quella di Shenzen, una fusione a tre che renderebbe la Repubblica Popolare Cinese la detentrice della più importante piazza d’affari a livello mondiale), sembrano destinate a spegnersi senza conseguenze.

Lo stesso può dirsi per le incredibili e altamente controproducenti sanzioni europee alla Russia, che alcune regioni come Veneto e Lombardia stanno cercando autonomamente di scavalcare; i danni alla nostra economia sono evidenti ma la passerella offerta a Vladimir Putin, che ha incontrato il Presidente ucraino Poroshenko proprio a Milano, rappresenta un’ opportunità di dialogo per superare quell’impasse da “nuova guerra fredda” funzionale soltanto agli interessi di Washington.

Certamente permangono pesanti contraddizioni: come ha notato un importante dirigente europeo, David O’ Sullivan, l’Unione Europea è priva di una seria agenda geopolitica e degli strumenti militari per condurre un’azione autonoma di deterrenza nelle aree di crisi.

Il progressivo sganciamento dalla NATO e il contrasto al TTIP (5) rimangono perciò oggi le due fondamentali battaglie da combattere per quanti intendano favorire il definitivo processo d’integrazione eurasiatica e far sì che le parole emerse a Milano come “lotta per uno sviluppo sostenibile, contro il terrorismo, la non proliferazione nucleare, l’immigrazione illegale e il traffico di essere umani” non rimangano solo vuota retorica.

Stefano Vernole è Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici

NOTE
1) http://www.ilfoglio.it/articoli/v/121874/rubriche/italia-cina-conclusi-20-accordi-commerciali-da-8-miliardi-di-euro.htm

2) http://www.ilfoglio.it/articoli/v/121841/rubriche/america-cina-si-sfidano-in-italia-la-storia-inedita-di-uno-scontro-di-potere.htm

3) I dati della tabella (vedi immagine) sono tratti da: Les amis de l’Europe, “Asia Europe Meeting. A partnership for the 21st century”, Buxelles, Summer 2014.

4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-16/sanzioni-ue-russia-ecco-quanto-costerebbe-all-italia-guerra-commerciale-mosca-181150.shtml?uuid=ABravv3B

5) http://www.eurasia-rivista.org/ttip-e-tpp-strumenti-di-dominio-statunitense/19977/

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I FRONTI CALDI DELL’EURASIA: I CONFLITTI E LE TENSIONI IN EUROPA ORIENTALE E NEL VICINO ORIENTE

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In occasione del decennale di EURASIA. Rivista di studi geopolitici, l’Associazione Nuove Idee presenta una conferenza dal titolo I FRONTI CALDI DELL’EURASIA: I CONFLITTI E LE TENSIONI IN EUROPA ORIENTALE E NEL VICINO ORIENTE che si terrà a Brescia sabato 8 novembre alle ore 15.30 in Via Pietro Pasquali 5.

All’evento parteciperanno Claudio Mutti, idrettore della rivista Eurasia, Stefano Vernole (Vice Direttore della rivista), Paolo Rada (saggista ed esperto di Islam) e Ali Reza Jalali (ricercatore e analista geopolitico).

Nel corso dell’evento verrà presentato anche l’ultimo numero della rivista EURASIA dedicato alla geopolitica delle religioni.

Locandina Eurasia-conferenza_08112014

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TOMMASO CAMPANELLA, LA CITTA’ DEL SOLE

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Tommaso Campanella, La Città del Sole, Edizioni di Ar, Padova 2014, pp. 122

E’ un testo classico che mantiene tutta la sua importanza, La Città del Sole.

La forza dirompente e la suggestione primaria di quest’opera stanno nella sua capacità di immaginare e di rappresentare un regime a un tempo comunista e teocratico, contraddistinto dalla messa in comune delle risorse (materiali e financo personali: i figli, le donne …) e da una precisa gerarchia destinata a custodire l’origine trascendente dello Stato e le sue finalità “totalitarie”.

In uno scritto utilizzato – vanamente – come difesa giudiziale (la Secunda delineatio defensionum) Campanella (1) precisa la sua ispirazione antimoderna, che lo mise fra l’altro in polemica con Machiavelli, del quale contestava l’orientamento settoriale e la mancanza di riferimenti superiori (2): “Nessun impero né regno si è potuto reggere con la sola prudenza politica (…) Per questo Socrate affermò che lo Stato va in rovina se viene meno l’arte divinatoria, e Salomone che il popolo è perduto senza profezia”.

E’ forte nel corso di tutta la sua vita il riferimento all’importanza della profezia e della predestinazione; lui stesso è “novello legislatore del mondo, eletto da Dio”. In un sonetto di commento al salmo Saepe expugnaverunt me così riassume la sua vicenda umana: “Spesso m’han combattuto, lo dico ancora/fin dalla giovinezza; ahi troppo spesso !/Ma d’espugnarmi non fu lor concesso,/ch’è Dio che mi sostiene e mi rincuora”.

Nella Città del Sole egli fissa i lineamenti di quella renovatio mundi alla quale i filosofi devono dare un contributo essenziale, trasformando la teoria in modello praticabile.

Di contro alla “commedia universale”, di contro al “teatro del mondo” – oggetti di studio costante da parte di Campanella – viene delineato uno Stato ideale che è modello di armonia, di ordine, di corrispondenza fra essere e apparire.

Al vertice – senza separazione di potere spirituale e materiale – sta il Principe Sacerdote, ovvero il Metafisico, ovvero il Sole; dopo di lui, o meglio al suo fianco (“collaterali”) i tre Principi rappresentanti Potestà, Sapienza e Amore; via via segue una gerarchia di ufficiali ed enti intermedi destinati a dare sostanza a una retta e felice vita sociale.

Assenza di proprietà privata, educazione comune di base ed eugenetica sono aspetti imprescindibili della disciplina solare, così come l’esigenza di accordare a ciascun membro della comunità dignitosi mezzi di sopravvivenza; l’analogia/simpatia fra corpi celesti ed enti terrestri – fra macrocosmo e microcosmo – è attentamente considerata.

In un sonetto intitolato “Sulle radici dei gran mali del mondo” Campanella indica quali siano stati i bersagli della sua vita: “Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”. Quest’ultima si nasconde evidentemente anche ai massimi livelli, quando l’istituzione subisce il contrappasso della contraffazione: “Non è re chi ha regno, ma chi sa reggere”, titola con coraggio un altro suo sonetto.

Un’ultima considerazione: domenicano talvolta in sospetto di eresia, Tommaso Campanella manifesta ne La Città del Sole una concezione del Sacro che va al di là della dottrina cattolica; che la comprende, sicuramente, ma che sembra andare oltre.

La collocazione di questa città santa è vicino a Taprobana, che secondo la descrizione di Tolomeo potrebbe corrispondere a Ceylon (per altri potrebbe essere vicino a Sumatra; come spiega l’attento curatore dell’opera, si tratta più di una visione che di un preciso spazio geografico): una collocazione comunque “esotica”, estranea al mondo tradizionalmente cattolico.

I Solari onorano personalità spirituali diverse: “Moisè, Osiri, Giove, Mercurio, Macometto ed altri assai; e in loco assai onorato era Gesù Cristo e li dodici Apostoli, che ne tengono gran conto, Cesare, Alessandro, Pirro e tutti li Romani” (p. 19); e “cantano gesti di eroi cristiani, ebrei, gentili, di tutte le nazioni” (p. 47), così da suggerire un’impronta realmente imperiale, più che confessionale, della Città del Sole.

 

NOTE

1. Vita veramente straordinaria, quella di Tommaso Campanella: l’infanzia e adolescenza in Calabria, l’entrata già da ragazzo nell’ordine domenicano, il trasferimento a Napoli, la congiura, l’arresto, l’indicibile (40 ore !) tortura della “veglia”, la simulazione della follia, i 27 anni consecutivi di carcerazione, l’enorme quantità di opere scritte durante la detenzione, la liberazione, il nuovo (breve) imprigionamento, l’esilio in Francia e la felice permanenza alla corte del Richelieu, la morte e la sepoltura in un convento andato distrutto, insieme alla sua tomba, durante la Rivoluzione, nel 1795
2. “Sembra dunque indubitabile il divario fra Machiavelli e Campanella: due menti lontane e antitetiche”, afferma Gerardo Di Nola in Tommaso Campanella, il nuovo Prometeo: da poeta-vate-profeta a restauratore della politica e del diritto, ESD Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1993, p. 155

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LE SANZIONI CONTRO MOSCA NEL CONTESTO DELL’INSTABILITÀ GLOBALE

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Il vertice europeo del 23-24 ottobre non sembra aver mutato la linea europea e americana di netta contrapposizione alla Russia, innescata dagli eventi ucraini degli ultimi mesi. Nonostante i gravi danni economici che ne deriverebbero (quantificati in 1,8 miliardi su base biennale per la sola Italia)(1), l’Europa è decisa a non rinunciare al regime di sanzioni che, sebbene imposte da Washington (per stessa ammissione del vice presidente americano Joe Biden)(2), non suscitano netta contrarietà presso i suoi leader, anzi. La crisi economica europea e l’erosione di sue quote di mercato da parte dell’America latina e della Cina, è però destinata a far emergere sempre più attriti tra Europa e Usa sulla questione.

Presso gli stessi policymaker statunitensi esiste scetticismo sull’efficacia della strategia volta a “isolare” la Russia, che, semmai, appare foriera di conseguenze negative sul piano tanto economico, quanto politico, per Washington.(3) In primo luogo essa potrebbe spingere sempre più ex alleati a diffidare del regime di rapporti fondato su un approccio “sanzionatorio” degli USA, che mina le basi di convenienza economica nella partnership atlantica, allontanando paesi alleati dai mercati finanziari europei e americani. Come sembrano suggerire del resto le operazioni di accantonamento del dollaro come moneta di scambio mondiale.

Inoltre, il piano di esclusione delle compagnie russe e di quelle estere che dovessero continuare a trattare con le prime, non tiene in conto la proiezione globale della presenza economica di Mosca, confondendo l’efficacia del piano di esclusione ai danni di un’economia regionale come l’Iran (verso la quale le sanzioni sono state realmente dannose), a cui sembra ispirarsi la contrapposizione attuale volta a isolare la Russia, con l’improbabile danno che deriverebbe a un mercato di ben più vaste proporzioni come quello russo, sempre più legato a quello cinese nelle sue ramificazioni asiatiche.

Di conseguenza lo scenario di chiusura ai danni di Mosca si tramuta in una porta sbarrata degli Usa verso la Cina e altri attori asiatici ad essa legati, riunitisi proprio il 24 ottobre scorso in occasione della creazione dell’Infrastructure Asian Investment Bank (AIIB) (4). Non solo, ma ben lungi dal danneggiare le finanze russe, le consolida, contribuendo alla conversione del debito estero russo (già pressoché nullo) denominato in dollari, in rubli e, quindi, alla sua svalutazione a seguito dell’indebolimento della valuta nazionale russa (5). In realtà questa chiusura appare il risultato di un clima di diffidenza tra i due giganti nucleari e uno strumento di pressione degli USA sulla Russia, quale naturale ritorsione contro la resistenza in Ucraina e l’annessione della Crimea.

Se le sanzioni però costituiscono il principale strumento degli Usa per mantenere il controllo geopolitico su tutta la regione euro-atlantica (6), come ha sostenuto il ministro degli esteri russo Lavrov, tale strategia di chiusura nelle proprie casematte, non può che far gravitare sempre più pedine al di fuori di questo scacchiere verso i poli della Cina e di Mosca, tra vecchi e nuovi alleati. La consistenza dell’influenza americana è ormai sensibilmente diminuita rispetto solo a una decade fa, e ciò è riconosciuto dagli stessi analisti americani.(7)

Accanto a paesi europei come la Serbia, dove Putin ha ricevuto, in occasione di una recente visita ufficiale, una accoglienza giudicata “trionfale”(8), e l’Ungheria, il cui presidente, Viktor Orban, ha dichiarato di volersi emancipare dalla forma di democrazia liberale occidentale (9), entrambi raggiunti dalla linea di rifornimento del South Stream, diversi paesi dell’America meridionale, affiliati o parte dei BRICS (e riuniti nell’UNASUR) (10), nonché alcuni stati dell’area medio orientale e africana ormai diffidenti verso l’Occidente, tra cui l’Egitto (divorziatosi dagli USA dopo il sostegno alla Fratellanza musulmana), trovano una alternativa al “nuovo ordine” (che dovrebbe dirsi ormai “vecchio”) di Washington.

Stati Uniti e Israele, infatti, specie in queste ultime aree, con il loro contributo alla creazione dello Stato Islamico (11) e alla destabilizzazione politica di alcuni paesi (Libia e Siria su tutti), tramite il ricorso alla pratica del “regime change”, si sono alienati il sostegno di alcuni alleati regionali, nell’intento di perseguire obiettivi strategici confusi e indefiniti volti a generare caos e terra bruciata intorno al costruendo asse Iran-Iraq-Siria, che sarebbe stato rafforzato dalla realizzazione di un oleodotto attraverso i tre paesi (12), pericolo mortale contro la presenza statunitense nella regione, nonché foriero di un riallineamento strategico con Mosca e Pechino all’indomani del ritiro americano dall’Iraq.
La stessa manovra ribassista sul prezzo del petrolio avviata dall’Arabia Saudita (che sta facendo dumping senza intaccare i livelli di produzione) e seguita a ruota dagli altri produttori (13), tra cui l’Iran, alla quale ha fatto seguito un crollo delle quotazioni del greggio a livello mondiale, potrebbe essere letta anche come una partita contro la produzione russa. Va tenuto conto, tuttavia, di altri fattori, come la generale caduta della domanda e il surplus legato allo shale oil (petrolio da scisto bituminoso) americano che in gran parte ormai soddisfa la domanda statunitense di greggio (14).

Lo stesso Putin, forse in termini preventivi, ha paventato un “crollo dell’economia mondiale” in caso di discesa al di sotto degli 80 dollari al barile. In altri tempi l’instabilità politica globale avrebbe innescato un rialzo dei prezzi, non una sua repentina discesa come accaduto oggigiorno. Non è da escludere la tesi di coloro che sostengono essere questo ribasso il frutto di una manovra doppiogiochista dei sauditi, volta da un lato a spingere gli Usa ad abbandonare le riluttanze sull’intervento definitivo contro Assad e a troncare l’accordo con l’Iran sul nucleare previsto per novembre e dall’altro finalizzata a colpire i produttori concorrenti.(15) Un ribasso del prezzo del carburante in vista delle elezioni di medio termine potrebbe infine fare gioco a Obama nel contrastare una eventuale vittoria repubblicana.(16)

Se le sanzioni sono state la spinta definitiva al matrimonio russo-cinese, il cordone di contenimento a discapito di Pechino (vertente sull’asse Giacarta–Hanoi-Camberra-Manila-Taipei-Seul-Tokyo) può considerarsi indebolito in virtù della prospettiva di una definitiva saldatura euroasiatica tra Mosca e Pechino, ormai un dato consolidato, attorno alla quale potrebbero ruotare in futuro paesi un tempo parte della strategia di limitazione geopolitica cinese. Seguendo il dettame di Sun Tzu, sembra che cinesi e russi stiano tentando in un primo tempo di sconvolgere la strategia degli Stati Uniti, per poi provare a spezzarne le alleanze (17).

NOTE
(1) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-16/sanzioni-ue-russia-ecco-quanto-costerebbe-all-italia-guerra-commerciale-mosca-181150.shtml?uuid=ABravv3B
(2) http://fr.ria.ru/world/20141006/202628563.html
(3) “Don’t Mistake Russia for Iran.” Foreign Affairs. 25 Oct. 2014. Web. 25 Oct. 2014. http://www.foreignaffairs.com/articles/142278/eric-lorber-and-elizabeth-rosenberg/dont-mistake-russia-for-iran
(4) http://www.ibtimes.co.uk/china-launches-aiib-rival-world-bank-without-us-allies-after-pressure-washington-1471582
(5) http://www.zerohedge.com/news/2014-10-10/de-dollarizing-russia-pays-down-near-record-53-billion-debt-third-quarter
(6) http://italian.ruvr.ru/2014_10_21/UE-si-rifiuta-di-revocare-le-sanzioni-a-Mosca-e-non-intende-dare-altri-soldi-a-Kiev-8752/
(7) “The Unraveling.” Foreign Affairs. 25 Oct. 2014. Web. 25 Oct. 2014 http://www.foreignaffairs.com/articles/142202/richard-n-haass/the-unraveling
(8) http://temi.repubblica.it/limes/il-trionfo-di-putin-a-belgrado/67428
(9) http://vocidallestero.blogspot.it/2014/07/orban-attacca-la-democrazia-liberale-e.html
(10) http://rt.com/business/173008-brics-bank-currency-pool/
(11) http://en.alalam.ir/news/1621056
(12) http://www.alarabiya.net/articles/2013/02/20/267257.html ; http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2012/08/201285133440424621.html
(13) http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-10-02/petrolio-l-arabia-saudita-dichiara-guerra-prezzi-e-brent-crolla-164943.shtml?uuid=ABZQJQzB&fromSearch
(14) http://italian.ruvr.ru/2014_10_15/Il-prezzo-del-petrolio-9705/
(15) http://rt.com/op-edge/196148-saudiarabia-oil-russia-economic-confrontation/
(16) http://www.strategic-culture.org/pview/2014/10/23/political-manipulations-with-the-price-of-oil.html
(17) Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano 2003, capp. III-IV

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IL LEVIATANO

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Esaminiamo oggi un interessante articolo pubblicato a firma di Max Boot. (More Small Wars) apparso su “Foreign Affairs”, Nov/Dic 2014.

Lo citiamo perché non è facile trovare nella stampa a stelle e strisce un’analisi così dura ed impietosa sugli errori strategici ed operativi commessi dalla Casa Bianca in questi ultimi dieci anni, per trarre validi insegnamenti per il futuro.

Innanzitutto l’idea che le guerre si possano vincere confidando sulla tecnologia e sui droni: è stata ed è una falsa illusione, perché le conquista territoriali durature sono quelle che impegnano sempre le forze sul terreno. Il no boots on the ground può reggere solo temporaneamente, specie poi quando nel teatro delle operazioni non si dispongono di alleati che possano gestire le operazioni “per procura”.
Altro errore grave commesso dalla Casa Bianca è stato quello di programmare azioni militare volte all’abbattimento dell’ordine costituito senza preoccuparsi minimamente del “dopo”: è evidente agli occhi di tutti il fallimento di quanto successo in Libia, dopo la cacciata di Gheddafi – iniziata dai francesi col beneplacito di Washington. Oggi ci si ritrova un paese versato nella più completa anarchia che può essere infiltrato da gruppi terroristici e destabilizzare l’intera area mediterranea. Correlato a questo errore ve n’è un altro –non meno grave – che consiste nello strutturare operazioni militari partendo da presupposti ottimistici e non contemplando alcuno scenario fuori di quello in cui tutto fili liscio: sembra pazzesco, ma l’ultima campagna Iraq è stata gestita secondo il presupposto che, una volta eliminati gli uomini del precedente regime, accompagnati gli iracheni alle soglie della prima elezione, tutto si sarebbe risolto automaticamente per il meglio.

Qui si entra in un’altra grave mancanza riscontrata nel corso di questo arco di tempo: la difficoltà americana di gestire rapporti duraturi con i poteri civili e la popolazione. Sintomatico il racconto di un episodio successivo ad un attentato subito dalle forze americane in Iraq: nessuno era in grado di parlare in arabo col risultato di equivocare, e aggredire per reazione, chiunque in arabo si avvicini per comunicare. Non si sono mai strutturate relazioni stabili con organismi associativi locali e quasi sempre la popolazione locale è rimasta abbandonata a sé stessa con l’idea di aver subito un’invasione in piena regola.

Già a leggere queste righe sorge – crediamo- spontanea la domanda come mai nessuno si sia accorto di queste cose, e qui la risposta dello studioso ci lascia letteralmente basiti. A suo giudizio con la presidenza Bush si è sviluppata la tendenza, nelle Forze Armate, a compiacere il potere politico senza espletare la funzione di illustrare lealmente in modo franco finanche oppositivo i problemi stessi. E’ drammatico leggere di come il generale Petraeus abbia dovuto saltare tutta la catena di comando pe reperire le informazioni vere, interrogando la truppa e i civili con cui questa veniva a contatto. Così come fa riflettere il fatto che gli unici due funzionari dotati –a giudizio dell’autore- di acume strategico – Petraeus e l’ambasciatore Ryan Crocker – provengano, il primo da un corso di studi a Princeton, il secondo dall’aver svolto molte altre attività che l’hanno reso eclettico in situazioni fra loro più disparate: questo deve far riflettere sul livello di preparazione delle forze impiegate, dai vertici alle forze sul terreno. Né si può tacere sugli sbagli derivanti dall’assenza di un’ interoperatività fra le agenzie militari e di intelligence, la mancanza di comunicazione fra le quali comporta la mancanza di informazioni spesso cruciali per decidere di un’operazione .

Non si può trascurare il problema dei contractors che tanto rilievo hanno avuto nei media per veri e propri crimini di guerra compiuti (si pensi al caso della Blackwater): ebbene, premesso che non debbano farsi generalizzazioni, occorre eliminare quella ipocrisia di rappresentare al popolo americano falsi tagli al budget delle forze armate controbilanciati, nei fatti, da lucrosi contratti per servizi di sicurezza e di logistica affidati a società esterne che talvolta finiscono condizionare – specie nella parte logistica – la strutturazione delle stesse operazioni militari.

La chiusa finale dell’articolo è forse più un auspicio che un’indicazione concreta: l’autore ritiene che si deve avere il coraggio di riqualificare la spesa militare – a costo di sfidare le prevedibili opposizioni del Pentagono – tenendo conto proprio di quegli errori indicati e, soprattutto, evitare qualsiasi operazione bellica che non abbia tempi certi ed obiettivi precisi perché oggi, nel 2014, l’opinione pubblica non sarebbe più disposta a tollerare una guerra senza fine.

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UNO SGUARDO NON CONVENZIONALE SULLA RIVOLTA DI HONG KONG

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Durante i giorni della rivolta nelle principali piazze di Hong Kong, gran parte della stampa occidentale, colta quasi di sorpresa dal rapido susseguirsi degli eventi, ha immediatamente associato la situazione locale al ricordo dei disordini di Piazza Tienanmen nel 1989. Non si è trattato di una comparazione logica, giacché questa richiederebbe un’analisi politico-storica approfondita alla ricerca di possibili analogie. Piuttosto, è un riflesso pavloviano, un impulso del tutto emotivo, la perfetta immagine di un modo di vedere i fatti che, purtroppo, ha saturato il panorama dell’informazione occidentale e che torna a distorcere la realtà ogni qual volta ci si occupi di quanto avviene al di fuori dei propri confini nazionali.

Quello della politica estera è un settore giornalistico molto complesso, che richiede non soltanto il rigore cronachistico già imposto dalla deontologia professionale ma anche un’adeguata conoscenza storica e sociale dei contesti stranieri. L’assenza della capacità di osservare e raccontare il mondo nella sua molteplicità è ancor più grave e problematica al giorno d’oggi, ossia in un’epoca in cui la globalizzazione dell’economia e degli scambi tra i popoli sta ponendo le basi storiche per la ridefinizione degli equilibri internazionali in senso multipolare.
Seguendo la scia retorica delle numerose “rivoluzioni colorate” che hanno segnato il destino di tanti Paesi post-comunisti nel corso degli ultimi quindici anni, la rivolta di Hong Kong è stata ribattezzata col nome di “rivoluzione degli ombrelli”, in riferimento agli ombrelli effettivamente utilizzati dai manifestanti per evitare il contatto coi liquidi urticanti lanciati dalle forze dell’ordine allo scopo di disperdere la folla. Come da schema consolidato, alcuni governi occidentali hanno subito gettato benzina sul fuoco, interferendo per l’ennesima volta in una questione che rientra a pieno titolo negli affari interni della Repubblica Popolare Cinese e giudicando il governo di Leung Chun-ying senza conoscere in modo adeguato la situazione politica e sociale della Regione Amministrativa Speciale cinese.

Dopo oltre 150 anni di colonialismo britannico, Hong Kong è tornata alla madrepatria soltanto nel luglio del 1997 in virtù degli accordi raggiunti negli anni Ottanta tra Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, che andarono a sanare una delle numerose ferite ancora aperte per la Cina, provocate durante il “secolo delle umiliazioni” (1839-1949). Il Trattato di Nanchino, imposto dai britannici all’Impero Qing per mettere fine alla prima guerra dell’oppio (1839-1842), è rimasto nella memoria dei cinesi come la prima, e forse la più grave, delle violazioni commesse ai propri danni. Più di Macao, restituita dal Portogallo due anni dopo, Hong Kong rappresenta così l’emblema di un piano di ricostruzione della nazione, fondato sui criteri della storia e della geopolitica.

Oggi Hong Kong non è più il vecchio porto sul Mar Cinese Meridionale bramato e conquistato dagli inglesi con la prepotenza e il ricatto, bensì uno dei più importanti centri finanziari dell’Asia e del mondo. L’autonomia di cui gode ha consentito alla regione di non risentire quasi per nulla del passaggio dalla sovranità britannica a quella cinese. La popolazione, in lieve crescita negli ultimi anni (7,23 milioni di abitanti nel 2014), vanta alcuni fra i più alti standard di vita di tutta l’Asia. Il reddito pro-capite, in continua crescita, ha raggiunto 37.900 dollari nel 2013. Il PIL, sebbene abbia rallentato i ritmi di alcuni anni fa, procede su tassi di crescita compresi tra il 2% e il 3% annuo. Quasi il 90% della forza lavoro della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong è impiegato nei servizi: un primato senz’altro importante, ma anche uno sbilanciamento settoriale che renderebbe impraticabile qualunque ipotesi indipendentista. Dopo gli anni d’oro della crescita sfrenata, inoltre, il tasso di crescita delle esportazioni è in calo, mentre nel primo semestre del 2014 quello delle importazioni è aumentato dell’1,5% rispetto all’anno precedente, passando così al 4%. Il principale partner commerciale di Hong Kong è ovviamente la Terraferma (la Cina continentale), prima destinazione del suo export (45,6% nel 2013) e prima fonte del suo import (47,8% nel 2013).

Il percorso di ricongiungimento definitivo, sintetizzato dal governo cinese nella formula “un Paese, due sistemi”, prevede un iter di 50 anni (ovvero, sino al 2047) durante i quali il governo locale continuerà a disporre di una forte autonomia in ambito economico, giuridico e amministrativo per controbilanciare la competenza esclusiva di Pechino nei settori della difesa e della politica estera. Sul piano legislativo, il diritto di Hong Kong resta strutturato sul sistema del common law anglosassone, al punto che diverse incrostazioni coloniali non sono state ancora completamente rimosse. Prima fra tutte, l’assenza di uno sviluppo democratico che ha segnato per molti decenni la vita politica di Hong Kong, quando il governatore locale veniva nominato direttamente da Londra, senza che la popolazione locale avesse alcun ruolo nel processo decisionale.

La richiesta ufficiale presentata dai manifestanti, implicitamente inquadrati dalle organizzazioni riconducibili ai partiti di opposizione locali, è quella di veder garantite maggiori rappresentatività politica e trasparenza nei meccanismi elettorali in vista del voto del 2017. Eppure, da quando Hong Kong è tornata sotto la sovranità cinese, i livelli di rappresentatività istituzionale sono notevolmente aumentati rispetto al passato. La Commissione Elettorale che nomina il capo del Governo della Regione Amministrativa Speciale è composta da 1.200 membri, mentre il Consiglio Legislativo viene eletto già a suffragio universale per quanto riguarda la metà dei suoi membri (35 su 70), ai quali vanno aggiunti altri 5 membri, eletti, sempre a suffragio universale, tra chi già riveste una carica di consigliere distrettuale. In totale, dunque, 40 membri su 70 (più della metà) del principale organo legislativo regionale vengono scelti direttamente dalla popolazione. Gli altri, sebbene non scelti sulla base del suffragio universale diretto, sono comunque espressione di rappresentanze del mondo delle professioni.

Presentare la protesta come uno scontro tra l’autoritarismo del governo centrale e la richiesta di democrazia dei manifestanti appare dunque una forzatura, nella misura in cui è stata proprio la nuova gestione post-coloniale cinese a gettare le fondamenta per la costruzione di una struttura democratica a Hong Kong. Richiedere miglioramenti, qual’ora essi siano praticabili, è legittimo ma non al di fuori della legalità o attraverso la violenza. Senza contare che le istanze portate in piazza dalle opposizioni hanno goduto dell’appoggio di una minoranza della popolazione locale, pari a circa 450-500.000 persone (tra cui anche molti minorenni) su un totale di oltre 7 milioni di abitanti.

L’attacco nei confronti di Leung Chun-ying, dunque, pare più illogico ogni giorno che passa da quel 28 settembre, quando gli scontri di piazza ebbero inizio, e somiglia sempre di più ad un attacco alla Cina nell’ennesima manifestazione di auto-sciovinismo che Pechino, analogamente a quanto avviene per Taiwan, torna periodicamente a denunciare. L’attrazione verso un modello politico e sociale di matrice occidentale, e l’odio verso sé stessi in quanto cinesi, in quanto parte inalienabile di una identità collettiva non percepita pienamente come propria, restano probabilmente i peggiori lasciti del passato coloniale. Su questo terreno culturale, ancorché su quello politico o su quello economico, Pechino e Hong Kong dovranno lavorare assieme per garantire alle giovani generazioni, quelle a cui sarà affidata la regione nel futuro, la possibilità di imparare a convivere nella comune consapevolezza di appartenere ad un unico popolo, figlio della civiltà più antica del mondo.

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SERBIA, ALBANIA ED IL FATTORE PRIŠTINA

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La sospensione dell’incontro calcistico tra Serbia e Albania sembra aver inaugurato una nuova stagione di gelo diplomatico tra i due rispettivi Paesi, nonostante nei mesi precedenti un effimero ritorno alla stabilizzazione dei rapporti politici aveva lasciato ben sperare l’intera comunità europea. Gli incidenti allo stadio di Belgrado hanno infatti prorogato la visita ufficiale, la prima dal 1948, del premier albanese Rama con il suo alter ego serbo Aleksandar Vučić.

Il drone, che ha sorvolato lo Stadion Partizana inneggiando un ritorno all’Albania, potrebbe essere stato pilotato da attivisti vicini ai movimenti di Kreshik Spahiu o Sali Berisha, i due leader del nazionalismo albanese che hanno promosso lo scorso anno dei referendum per l’annessione delle storiche parti balcaniche tutt’oggi a maggioranza albanese, soprattutto quelle presenti nella regione del Kosovo. Le rassicurazioni del premier Rama hanno però confermato l’assenza di qualsiasi progetto politico di “Grande Albania” poiché proprio Tirana, insieme agli altri due paesi confinanti Macedonia e Montenegro, ha già riconosciuto l’indipendenza del Kosovo subito dopo la sua dichiarazione del 2008.

Al di là dell’evento sportivo, le incomprensioni tra Serbia ed Albania celano argomenti politicamente ben più rilevanti ed oggi non solamente dipendenti dal consueto nazionalismo etnico che in passato si è manifestato anche al di fuori della sfera storica o politica.

A distanza di anni, infatti, una delle sfide più importanti tra i due rispettivi Paesi dei Balcani è la palese volontà di imporsi sull’apatico scenario che si sta evolvendo in Kosovo, terra storicamente e culturalmente legata alla Serbia, ma a maggioranza etnica albanese. Sempre la Serbia, coinvolta principalmente nelle vicende kosovare, ha negli ultimi mesi migliorato le proprie strategie di collaborazione con Priština rispetto al passato. Anche l’Alto Commissario europeo Catherine Ashton si è congratulata per i positivi risultati raggiunti.
Oggi il Kosovo rappresenta, non solo per Serbia e Albania, ma soprattutto per il proprio futuro, una delle sfide più importanti nei Balcani occidentali e non solo.

Gli avvenimenti che dopo la conclusione delle elezioni, da oltre cinque mesi, tengono in stallo i lavori parlamentati dell’Assemblea kosovara, per l’incapacità di eleggere il Presidente dello stesso Parlamento, sembrano confermare le convinzioni della Serbia in merito alla non comprovata legittimità politica e reale indipendenza di Priština e del suo governo. Belgrado non ha mai riconosciuto infatti la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, continuando a considerare tale regione come una propria provincia autonoma annessa ai suoi stessi confini nazionali.

Mentre l’attuale Presidente dell’Assemblea, Atifete Jahiaga, non esclude la possibilità di nuove elezioni, appellandosi all’art. 84 della Costituzione, l’ultima sentenza della Corte Costituzionale sembra sottolineare le carenze di un sistema politico nel suo sistema di funzionamento politico interno. Infatti, se da un parte la sentenza ha sancito la possibilità della maggioranza neoeletta di scegliere un Presidente legato al proprio gruppo parlamentare, dall’altra è impossibile non rilevare una grave discrasia nei rapporti istituzionali tra lo stesso sistema politico e quello giuridico. Oltre ad non esservi alcuna previsione costituzionale riguardante la mancata elezione del Presidente, che quindi non bloccherebbe i lavori dell’Assemblea stessa, l’estrema scelta di nuove elezioni dissolverebbe un parlamento eletto dai cittadini e disfatto solo perché composto da parlamentari non in grado di comportarsi nel modo auspicato.

Forse dal 18 febbraio 2008, data della dichiarazione unilaterale di indipendenza nei confronti di Belgrado, le autorità kosovare non hanno mai affrontato una crisi così forte del proprio sistema politico. Sebbene la comunità internazionale osserva inerte gli ultimi sviluppi in Kosovo, la stessa Assemblea è tutt’oggi un´istituzione di autogoverno amministrata dallo United Nations Interim Administration in Kosovo (UNMIK).
La presenza delle Nato in Kosovo non è mai stata legittimata da Belgrado che ne ha sempre denunciato, fin dal biennio 1998-99, l’ingerenza all’interno dei propri confini nazionali. In quell’occasione, nonostante la presenza dei caschi blu delle Nazioni Unite, la conferma di crimini efferati contro la minoranza serba al nord del Kosovo, eseguita dall’organizzazione terroristica dell’Esercito di Liberazione del Kosovo Albanese (UÇK), è rimasta una ferita aperta in Serbia.

Gli stessi requisiti di indipendenza del Kosovo vengono attualmente riconosciuti come casi emblematici non solo dalle istituzioni o dal popolo serbo, ma anche dalla dottrina del diritto internazionale. L’ex madre patria kosovara, non riconoscendo a Priština alcuna legittima politica, contestandone  in modo persistente  e  inequivocabile l’indipendenza stessa, ha condotto nel luglio 2010 la Corte internazionale dell’Aja ad esprimersi in modo favorevole al ricorso contro la stessa dichiarazione di indipendenza kosovara definita dai giudici «non illegale» ma nemmeno «legittima». Tale sentenza è stata ultimamente ribadita dalle parole del Commissario all’allargamento dell’Unione Europea, Stefan Fuele, che non ha imposto alla Serbia alcun obbligo di riconoscimento del Kosovo soprattutto dopo le ultime tensioni avvenute con l’Albania e lo stallo del Parlamento di Priština.
Sebbene tutto ciò sia un ulteriore conferma dell’incapacità politica delle istituzioni kosovare, proprio
l’attuale scenario non appare essere sottovalutato da Belgrado.

Il ritorno ad un Kosovo nuovamente serbo appare al momento quasi impossibile da realizzare; ma, viste l’inerzia della comunità internazionale e le critiche del senatore statunitense Christopher Murphy durante l’ultima visita proprio in Serbia, Belgrado potrebbe verosimilmente sostituirsi nel ruolo di partner regionale. La popolazione serba presente in Kosovo, maggioritaria nei distretti di Leposavic, Zvecan, Zubin Potok al nord e Strpce al sud, non preoccupa al momento le strategie di Belgrado.

Anche le sanzioni commerciali imposte a Mosca, conseguenti la crisi in Ucraina e la guerra civile in atto in Crimea, stanno giocando un ruolo fondamentale nel triangolo Belgrado-Priština-Tirana.
Lo scorso settembre il Kosovo, insieme a Macedonia e Montenegro, ha ufficializzato la propria favorevole posizione alle sanzioni contro Mosca, in linea con la politica dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America. Ciò che ha spinto le istituzioni kosovare a tale decisione è la comparazione, nonostante le abissali e molte differenze, tra lo scenario che si sta definendo in Crimea e gli avvenimenti accaduti tra Priština e Belgrado prima della dichiarazione del febbraio 2008. La Serbia, invece, appare l’unico Paese dei “Balcani occidentali” a non approvare le sanzione contro Mosca ed appoggiare la politica di Putin nel suo Paese ed in tutta la Federazione Russa.

Dopo le irrilevanti relazioni tra i due Paesi tra il 2000 ed il 2003, le sanzioni contro Mosca sembrano essere diventate la giusta chiave per una nuova e salda cooperazione tra Putin e Aleksandar Vučić, capace di trasformare una storica vicinanza politico-culturale in un forte legame sia sul piano economico che soprattutto geopolitico. All’interno di tale area, la posizione della Serbia in merito agli avvicendamenti di Priština è migliore rispetto a quella albanese.

Il presidente Putin non ha mai negato, ma l’ha sostenuta, la vicinanza tra il popolo russo e quello serbo, mantenendo salde le proprie idee sul non riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente. L’assenza di qualsiasi tipo di relazione diplomatica o dialogo tra Mosca e Priština conferma ulteriormente la chiara posizione russa a sostegno di Belgrado.

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“GEOPOLITICA DELLE RELIGIONI”: CONFERENZA DI “EURASIA” A BRESCIA

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Sabato 8 novembre 2014 a Brescia nella sala comunale di Via Pasquali 5 si è svolta una conferenza organizzata dall’associazione culturale “Nuove Idee” con lo scopo di presentare al pubblico il nuovo numero della rivista “Eurasia” dedicato alla geopolitica delle religioni. Sono intervenuti come relatori: il direttore della rivista Claudio Mutti, Paolo Rada, esperto di Islam e di religioni e Ali Reza Jalali, analista geopolitico del Vicino Oriente.

L’intervento di Claudio Mutti si è concentrato sulla geopolitica delle religioni a livello generale, con una riflessione ad ampio respiro che ha sottolineato l’importanza del fattore religioso nel mondo contemporaneo, al contrario di quello che avevano previsto i molti studiosi che in passato avevano frettolosamente decretato la fine di ogni forma di spiritualità a favore del predominio del materialismo.

Brescia 8 nov. 2014

Dopo una prima parte introduttiva, il direttore di “Eurasia” ha proposto di applicare criteri ispirati alla geopolitica delle religioni a tre casi particolari: Ucraina, Palestina e Iraq. Nel primo caso, lo scontro in atto all’interno del paese europeo può essere letto, anche, come uno scontro fra la componente uniate occidentale e quella ortodossa orientale. Nel caso della Palestina, invece, un progetto colonialista ispirato da un messianismo deviato incontra la resistenza di un katéchon che impedisce la distruzione dei Luoghi Santi ad opera dei “fanatici dell’Apocalisse”. In Iraq, infine, vediamo in modo chiaro l’emergere di una forma pseudoreligiosa, il wahabismo, corrente eterodossa nata in Arabia alcuni secoli fa, che ora tramite il famigerato “Stato Islamico” sta occupando ampie zone del paese mesopotamico. Tutti questi esempi ci fanno comprendere come la religione, nel bene o nel male, non sia affatto tramontata, ma anzi rappresenti un fattore identitario molto forte da prendere in considerazione nelle analisi geopolitiche.

Dopo l’intervento di Claudio Mutti, è arrivato il turno del secondo relatore, Paolo Rada, esperto di Islam, che ha sottolineato la radice comune delle tre religioni monoteistiche, mettendo però in risalto un fatto importante: ovvero che l’Islam e il Cristianesimo, proponendosi come religioni a destinazione universale, hanno rifiutato il settarismo e il particolarismo della religione giudaica. Inoltre all’interno dell’Islam esistono delle divergenze tra le diverse scuole, soprattutto tra sciiti e sunniti, con i primi che per molti aspetti si approssimano al Cristianesimo. Addirittura, secondo l’Islam sciita, il Mahdi, il salvatore dell’umanità che si manifesterà alla fine dei tempi per sconfiggere il Male, è non solo un discendente di Muhammad, profeta dell’Islam, ma anche di San Pietro, essendo la madre del Mahdi una principessa bizantina.

Brescia 8 nov. 2014 Pubblico 2

Ha concluso la serie degli interventi Ali Reza Jalali, analista geopolitico, che ha fatto una relazione concernente la geopolitica delle religioni applicata alla situazione del Vicino Oriente oggi, con uno scontro settario senza precedenti tra sciiti e sunniti, soprattutto in Iraq e Siria, dove le principali potenze regionali, soprattutto Turchia e Iran, vogliono ricreare di fatto la grandezza degli imperi del passato, rispettivamente in nome dell’Islam sunnita (neoottomanesimo) e dell’Islam sciita (neosafavidismo). Non a caso l’Iran difende i governi iracheno e siriano, influenzati in qualche modo dal fattore sciita, mentre la Turchia sostiene le opposizioni sunnite.

Al termine delle tre relazioni, vi sono state delle domande del pubblico ai relatori, domande che hanno affrontato vari argomenti concernenti il tema della conferenza.

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BRASILE: LA VITTORIA DI DILMA RILANCIA IL PROGETTO EURASIATICO

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La pur striminzita vittoria di Dilma Roussef (51,6% contro il 48,3% dello sfidante Aecio Neves) alle elezioni presidenziali del Brasile tenutesi lo scorso 26 ottobre, suggerisce diverse riflessioni.
Chi ha seguito le vicende elettorali direttamente da Rio De Janeiro deve innanzitutto constatare come il Brasile possa oggi considerarsi una Nazione finalmente matura, dotata di un grande potenziale di crescita sia economica che politica.
I giorni immediatamente antecedenti al ballottaggio tra i due candidati hanno visto sfilare in maniera a volte rumorosa e colorita ma sempre rispettosa ed ordinata, i sostenitori dei due schieramenti, sia nelle strade sia nelle spiagge (bandiere per Dilma ad Ipanema, foto 1).

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Nella strategica città di Rio De Janeiro, ex capitale e simbolo culturale del Paese verdeoro, le manifestazioni a sostegno di Roussef e Neves si sono svolte in assoluta tranquillità, al punto che il massiccio spiegamento delle forze di polizia il giorno delle votazioni, perfino in prossimità dei quartieri vip di Ipanema e di Leblon, ha quasi sorpreso i passanti e i pochi turisti presenti.
Nonostante l’esiguo successo, si pensi che il primo exit-poll riportava la vittoria di Dilma con solo il 50,5% dei voti, la città è rimasta tranquilla e un violento temporale ha ulteriormente raffreddato gli animi di quanti erano scesi in strada tra caroselli di auto e grida di giubilo.
Determinante nel conteggio finale la vittoria del Partito dos Trabalhadores (PT) nello Stato chiave del Minas Gerais, che alcuni sondaggi attribuivano a Neves (Governatore di quella regione).
Oltre allo scarto minimo, non bisogna comunque sottovalutare alcuni elementi caratterizzanti questo votazione.
Il Brasile si ripresenta elettoralmente spaccato in due; mentre il Nord-Est dei poveri (seppur in crescita economica) si è espresso massicciamente a favore della Roussef, il ricco Sud-Ovest si è schierato a favore di Neves ma avrebbe fatto lo stesso con chiunque fosse stato avversario del PT.
Si tratta di una divisione che riflette in buona parte la composizione sociale classista del paese, dove ancora oggi fatica ad emergere un vero ceto medio nonostante 12 anni di politiche “laburiste”.
L’ultimo anno dell’economia brasiliana ha registrato risultati tutt’altro che confortanti, al punto che è tornato ad affacciarsi lo storico spettro dell’inflazione e il debito pubblico è aumentato ulteriormente.
Se è vero che l’esame dei Mondiali di calcio è stato brillantemente superato, mentre i catastrofisti della propaganda yankee soffiavano sul fuoco di improbabili rivolte, in vista dei Giochi Olimpici di Rio 2016 occorre un ulteriore scatto di reni.
Il Brasile deve affrontare e risolvere una volta per tutte alcuni nodi interni che gli impediscono di decollare definitivamente e che riguardano essenzialmente tre fattori: la lotta alla corruzione (vedi scandalo Petrobras), la lotta all’analfabetizzazione di grandi fasce della popolazione (i test scolastici sono ancora lontani dagli obiettivi prefissati dalle Amministrazioni precedenti), la lotta alla criminalità e alla droga (che costituiscono una delle piaghe storiche in diverse zone del Brasile).
Le priorità immediate di Dilma riguardano comunque il rilancio degli investimenti e pertanto i primi provvedimenti verranno varati a favore delle imprese, con una politica chiara e trasparente necessaria a riprendere la crescita e le esportazioni (che continuano ad essere centrate soprattutto sulle materie prime e non sui prodotti dell’industria di trasformazione).
Accumulato il capitale necessario, lo Stato brasiliano dovrà quindi incentivare la costruzione delle infrastrutture, riformare il fisco (alleggerendo la burocrazia) e tentare di risolvere gli intrecci negativi nelle stesse politiche sociali (sanità-corruzione, lavoro-assistenzialismo, oltre alla storica concentrazione monopolistica della proprietà terriera).
Bisogna comunque riconoscere al PT una buona capacità di mobilitazione, in quanto tutti i grandi media brasiliani (televisioni in particolare) si trovano nelle mani di 5 grandi famiglie che di certo non hanno tifato a favore della Roussef e che tuttavia non sono riuscite a mobilitare più di 2.500 persone a San Paolo (e solo poche decine a Rio de Janeiro, vedi foto 2) per l’impeachment a Dilma.

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Quest’ultima ha condotto una campagna presidenziale sulla base degli slogans: “Governo Novo” – “Ideias Novas” (http://www.dilma.com.br/), come a confermare che il Brasile deve ritrovare quello slancio parzialmente perso negli ultimi tempi e che potrà avvenire solo con un serio rinnovamento della stessa classe dirigente che l’ha guidato negli ultimi 12 anni.
Solo così Brasilia potrà giocare la propria parte nel nuovo sistema mondiale ipotizzato dai Paesi del BRICS, la cui nuova Banca avrà sede a Fortaleza e il cui statuto verrà redatto dal dirigente del Ministero degli Esteri verdeoro Samuel Pessoa.
La vittoria di Dilma, assicura infatti una forte spinta propulsiva al progetto eurasiatico di un mondo multipolare libero dall’egemonia statunitense, perciò i rapporti con Russia e Cina assumeranno ora contorni sempre più stretti, regalando al Brasile quella sovranità nazionale che potrà essere utilizzata per riscattare l’intero continente latino-americano dall’abbraccio letale di Washington.

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NUOVO RAPPORTO DELL’OIL SUL LAVORO FORZATO

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L’ Organizzazione Internazionale del Lavoro rivede le sue stime sul lavoro forzato nettamente al rialzo: 21 milioni di lavoratori coinvolti, per un profitto di 150 miliardi di dollari all’ anno.

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I nuovi dati sono stati esposti nel documento “Profits and Poverty: The Economics of Forced Labour”. Il riscontro più agghiacciante emerso da questo studio è che ben 99 miliardi di proventi, sui 150 totali, derivano dallo sfruttamento sessuale; i restanti 51 miliardi sono ricavati invece da lavori forzati in ambito commerciale: principalmente lavoro domestico e agricoltura. Da quanto emerge dalla ricerca sono quindi le donne e le bambine ad essere più soggette ai lavori forzati, mentre gli uomini svolgono la loro attività nell’ambito edile e minerario. Analizzando i proventi derivati dai diversi settori produttivi si nota che mettendo insieme il lavoro industriale, quello in miniera ed il settore edile, i ricavi raggiungono i 34 miliardi di dollari; altri 9 miliardi derivano dagli sfruttamenti nel settore primario ed altri 8 dal lavoro forzato nelle mura domestiche.
La ricerca dell’ OIL ha anche trattato l’impatto che il lavoro forzato manifesta nelle diverse aree geografiche. Nell’ Asia-Oceano Pacifico gli sfruttamenti sono più diffusi: quasi 12 milioni di persone sono sottoposte ad abusi, garantendo un ricavo annuo di 40 miliardi. Nelle economie sviluppate invece il profitto è di 34 miliardi, prodotti da un milione e mezzo di lavoratori sfruttati. Le stime del numero di lavoratori coinvolti sono date da una precedente ricerca del 2012, condotta sempre dall’ International Labour Organization.

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L’OIL, oltre ad aver garantito dei dati empirici, si è anche preoccupata di sviluppare un’analisi su quelle che sono le cause principali di questo fenomeno, ancora così diffuso in molte parti del mondo. Contribuiscono in maniera sostanziale la scarsa educazione di base, la povertà, i fenomeni migratori ed una cultura in cui è assente la parità di genere. Da specificare, riguardo all’ elaborato in questione, resta il fatto che lo studio prende in considerazione solamente il lavoro forzato privato, perché “si registrano progressi nella riduzione del lavori forzati imposti dai vari stati (come ad esempio il lavoro carcerario non regolamentato o il reclutamento forzoso dei bambini soldato) e gli sfruttamenti ormai riguardano per il 90% l’economia privata, perciò dobbiamo soffermare maggiormente la nostra attenzione sui fattori socioeconomici che rendono le persone vulnerabili alle pratiche di lavoro forzato nel settore privato”: questa l’opinione di Beate Andrees, Direttore del Programma Speciale di Azione dell’OIL per combattere il lavoro forzato.
Dopo l’analisi approfondita è essenziale sviluppare nuove strategie per limitare gli abusi sui lavoratori. In primo luogo si cercherà di garantire maggiori risorse al fine di incrementare gli investimenti nell’educazione e nella formazione professionale, per aumentare le opportunità di lavoro dei soggetti più svantaggiati. Si tenterà inoltre di garantire maggiori prestiti a soggetti che hanno perso il lavoro o hanno subito una imprevista diminuzione di guadagni, al fine di scoraggiare l’usura e la dipendenza economica dagli sfruttatori. Un altro obiettivo sarà quello di prevenire ed evitare gli abusi sui migranti ed il lavoro clandestino; sarà, infine, importante tutelare maggiormente le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori che fanno parte dei settori più colpiti dallo sfruttamento.
Dopo aver dichiarato tutti questi obiettivi il direttore dell’OIL, Guy Ryder, ha ribadito nuovamente che “se vogliamo dare un cambio significativo nella vita di questi 21 milioni di uomini, donne e bambini vittime del lavoro forzato, dobbiamo adottare misure concrete e immediate. Questo significa collaborare maggiormente con i governi per migliorare le legislazioni in materia, adottare nuove politiche e preoccuparci della loro successiva applicazione. Indispensabile sarà continuare il dialogo con i diversi sindacati, affinché continuino a rappresentare tutti i lavoratori in situazioni di disagio”. Riferendosi al Profits and Poverty: The Economics of Forced Labour il direttore ha aggiunto che “il nuovo studio porta ad un livello superiore la nostra conoscenza sulla tratta di persone, sul lavoro forzato e sulla schiavitù moderna. Questo documento aggiunge un nuovo carattere di urgenza ai nostri sforzi per sconfiggere questa piaga dell’umanità”.
Un prossimo passo importante per l’OIL sarà certamente quello di aggiornare la Convenzione internazionale sul lavoro forzato, datata 1930, messa in campo per lottare contro le pratiche del colonialismo e che risulta ormai in buona parte obsoleta. L’appuntamento è fissato alla prossima riunione generale dell’Organizzazione, in cui verrà discusso un protocollo per allargare la Convenzione anche al settore privato.

Ecco il testo integrale del documento dell’OIL, di seguito il rapporto 2012
http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_norm/—declaration/documents/publication/wcms_243027.pdf
http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_norm/—declaration/documents/publication/wcms_182004.pdf

Immagini tratte dal sito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro www.ilo.org

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L’IMPERIALISMO STATUNITENSE IN CAMBOGIA DURANTE LA GUERRA DEL VIETNAM

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Gli Accordi di Ginevra del 1954 posero fine alla guerra di Indocina, che si era conclusa con la sconfitta dei francesi ad opera del Vietminh a Dien Bien Phu. I firmatari, fra cui Francia, URSS, Cina e Vietnam del Nord, riconobbero l’indipendenza della Cambogia e la sua posizione internazionale come stato neutrale. Tuttavia, la Cambogia indipendente dovette subire le politiche imperiali statunitensi a causa della sua posizione strategica. Gli USA, sempre più coinvolti nel conflitto vietnamita e decisi ad impedire l’avanzata del comunismo nel sud-est asiatico, pretendevano che la Cambogia entrasse a far parte della SEATO (Organizzazione del Trattato del Sud Est Asiatico) che comprendeva Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Australia, Nuova Zelanda, Thailandia e Filippine. Il principe Sihanouk, che all’epoca era alla guida di quella nazione, oppose sempre un netto rifiuto, poiché era deciso a conservare la neutralità del proprio paese. Gli Stati Uniti, irritati dal comportamento di Sihanouk, alternarono aiuti economici, minacce e appoggio alla sovversione interna ed esterna. La CIA creò una classe militare cambogiana conservatrice e apertamente filoamericana, finanziando allo stesso tempo alcuni gruppi armati di opposizione anticomunisti che intendevano instaurare un regime repubblicano. Inoltre, gli Stati Uniti sostenevano le rivendicazioni territoriali dei paesi alleati Thailandia e Vientam del Sud, che rifiutavano di riconoscere i confini con la Cambogia. Fra il 1957 e il 1958 le truppe sud-vietnamite, sostenute dagli USA, invasero Stung Treng, una provincia cambogiana nord-orientale in cui vi era una presenza significativa dell’etnia vietnamita, ma furono respinte dopo violenti combattimenti. Le truppe sud-vietnamite, coadiuvate dalla CIA, proseguirono le proprie incursioni in territorio cambogiano per tutti gli anni ’60. La Thailandia, forte dell’appoggio statunitense , occupò la provincia cambogiana occidentale di Preah Vihear nel 1958, ma soltanto nel 1962, dopo l’intervento della Corte Internazionale di Giustizia, acconsentì al ritiro delle sue truppe. In questo periodo la CIA, intenzionata a creare un corridoio strategico tra il Vietnam del Sud e la Thailandia, tentò invano di fomentare una rivolta secessionista nelle provincie di Siem Reap e di Kompong Thom per creare uno stato fantoccio degli USA che comprendesse il nord della Cambogia e il Laos meridionale. La CIA organizzò inoltre, senza successo, numerosi attentati contro Sihanouk, assoldando sicari e recapitando pacchi esplosivi. Alla fine del 1965, gli Stati Uniti bombardarono con i B-52 il confine fra il Vietnam del Sud e la Cambogia provocando migliaia di morti e feriti fra i civili di entrambi i paesi. Questi avvenimenti costrinsero Sihanouk ad accettare gli aiuti economici e militari cinesi e a permettere tacitamente ai nord-vietnamiti e ai vietcong di utilizzare il Sentiero di Ho Chi Minh, che attraversava la Cambogia orientale, per penetrare nel Vietnam del Sud dove effettuavano le proprie missioni militari contro il regime di Saigon, fantoccio degli USA. Alla fine degli anni ’60, l’instabilità della Cambogia fu ulteriormente aggravata dalla presenza di un crescente movimento comunista di opposizione, dominato dai khmer rossi, che stava prendendo piede nelle campagne cambogiane. I bombardamenti americani in Cambogia cominciarono nel marzo 1969 per volontà del presidente Nixon. A partire da quell’anno, la Cambogia fu sempre più coinvolta nel conflitto in corso nel vicino Vietnam, con conseguenze devastanti. Tramite i bombardamenti sulla Cambogia, gli USA intendevano proteggere la sicurezza del traballante regime di Saigon. Fino all’estate del 1973 i B-52 americani sganciarono sulla sola Cambogia 539.129 tonnellate di bombe, tre volte il tonnellaggio complessivo, armi atomiche comprese, sganciato sul Giappone durante la II Guerra Mondiale. I bombardamenti americani distrussero l’economia cambogiana e ne disgregarono la società, favorendo la crescita dell’opposizione armata dei khmer rossi. Tuttavia, pur causando enormi distruzioni del territorio con centinaia di migliaia di vittime e di profughi, le missioni di bombardamento americane non affievolirono mai le capacità di combattimento dei comunisti vietnamiti che, invece, consolidarono la propria presenza militare in Cambogia. Anche le numerose missioni terrestri di infiltrazione e sterminio, promosse dalla CIA, non riuscirono a localizzare le basi comuniste e a distruggerle. Il 18 marzo 1970 il generale Lon Nol, forte del sostegno della CIA, effettuò un colpo di stato, instaurando un regime militare. Il 23 marzo dello stesso anno, a Pechino, Sihanouk riunì l’opposizione cambogiana, fra cui i khmer rossi, nel FUNK (Fronte Unito Nazionale della Kampuchea) e chiese ai suoi compatrioti di ribellarsi al regime di Lon Nol. Il conflitto cambogiano si aggravò nell’aprile 1970, quando Stati Uniti e Vietnam del Sud invasero la Cambogia per distruggere le basi comuniste. I sud-vietnamiti, forti del sostegno americano, perpetrarono saccheggi e massacri ai danni dei civili cambogiani, spingendone un gran numero ad entrare nella resistenza ed aggravando la guerra civile in corso che si concluse il 17 aprile 1975, con la caduta della capitale Phnom Penh nelle mani dei khmer rossi di Pol Pot.

Marco Musumeci, 34 anni, laureato in Scienze internazionali e diplomatiche nell’ottobre 2006. Fra il 2009 e il 2010 autore di alcuni saggi brevi incentrati sulla politica estera di Cuba, pubblicati sul “Moncada”, periodico dell’Associazione di Amicizia Italia-Cuba.

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LA CENTRALITÀ DELLA BULGARIA NELLE STRATEGIE EURASIATICHE DELLA RUSSIA

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La nuova fase politica in Bulgaria caratterizzata dall’elezione di Borisov alla guida di un governo di minoranza, potrebbe rappresentare una delle pagine più importanti per il Paese soprattutto in politica estera.
Nella “partita del gas” tra Russia ed Unione Europa, la Bulgaria rivelerebbe tutta la sua centralità geopolitica convincendo Putin ad iniziare nuove strategiche relazioni.
La cooperazione potrebbe seguire quella che nei Balcani hanno promosso Bulgaria, Ungheria e Austria in merito al ripristino dei lavori del South-Stream.
La conclusione del gasdotto aumenterebbe la leadership russa all’interno del settore energetico che, oltre al North-Stream nel Mar Baltico, permetterebbe alla Russia di aggirare il campo minato ucraino, uno dei governi più ostili come quello romeno, il Bosforo ed il Dardanelli.
Inoltre, il South-Stream ridurrebbe l’importanza dell’altro gasdotto bulgaro voluto dall’Unione Europea, il Nabucco, ufficializzando per quest’ultima una doppia sconfitta dopo le sanzioni contro Mosca.

La scarsa informazione dei media occidentali sugli avvenimenti politici legati alla Bulgaria non tolgono al Paese l’importante ruolo all’interno della regione dei Balcani e, soprattutto, all’interno del blocco eurasiatico.
La centralità della Bulgaria sembra essere riemersa, sia da un punto geopolitico che strategico, in una delle pagine più negative della sua storia nazionale.
Le elezioni di inizio ottobre, infatti, sembrano aprire una nuova fase di instabilità politica rappresentata dall’elezione di Bojko Borisov, leader del partito GERB, che governerà in un esecutivo di minoranza dopo l’uscita dalla coalizione del Partito Patriottico poco prima dell’investitura dei nuovi ministri.

Oltre ai problemi strutturali del Paese, il nuovo Governo bulgaro dovrà affrontare seriamente gli accordi e gli obiettivi presi nei mesi scorsi in politica estera.
Nonostante il neo Capo del Governo sia deciso a mantenere una chiara posizione euro-atlantica, tale orientamento, in linea con quelle del vecchio governo socialista di Plamen Orešarski, sembra poter subire un svolta verso nuove strategie capaci di ripercuotersi in campo europeo e non solo.

Una delle sfide principali della Bulgaria si giocherà sul campo della cooperazione con Mosca nel settore energetico.
Le tensioni tra Russia e Ucraina, con le conseguenti sanzioni europee contro il Cremlino, hanno avuto gravi ripercussioni nel tessuto sociale bulgaro.
La Bulgaria dipende per oltre l’85% del suo fabbisogno nazionale dal gas russo, che arriva tramite un gasdotto che attraversa anche Ucraina e Romania.
Quest’ultimo, secondo le dichiarazioni del Ministro dell’Energia, che ha convocato in questi giorni il Consiglio per le Crisi, ha smesso di erogare la fornitura prevista.
Le inadempienze russe, non causate da decisione del Cremlino, vengono attualmente sostituite da Sofia con gli approvvigionamenti del giacimento bulgaro di Chiren che, però, prevede il passaggio dalle centrali di riscaldamento da gas a olio combustibile.
Anche all’interno del settore agricolo, il Ministero degli Affari Esteri bulgaro ha da poco ufficializzato i dati inerenti la perdita di oltre dieci milioni di lev a causa dei blocchi commerciali contro Mosca.

Tale scenario sembra condurre il neo premier Bojko Borisov ad un cambio di strategie iniziato a delinearsi durante gli ultimi lavori diplomatici svolti con Ungheria prima ed Austria poi.
Durante questi appuntamenti, dove si è palesata la volontà politica del nuovo Governo di Sofia, il Presidente bulgaro Rosen Plevneliev ha definito di prioritaria importanza il ripristino e la celere conclusione dei lavori del gasdotto South-Stream.
Evitare drammi come quelli dell’inverno 2009, quando gran parte del Paese rimase senza rifornimenti energetici per quasi un mese, andrebbe di pari passo ad una sempre più stretta relazione tra i Paesi balcanici e la Russia.

Le parole di Rosen Plevneliev hanno dato ragione all’Ambasciatore russo presso l’Unione Europea, Vladimir Chizhov, che aveva definito il blocco dei lavori del South-Stream lo scorso giugno una «decisione politica», da interpretare nel più ampio quadro delle sanzioni europee contro la politica di Vladimir Putin.

Proprio la costruzione del gasdotto, proveniente dalla Russia e che oltrepassa il Mar Nero, era stata bloccata dagli Stati Uniti d’America e dalla stessa Bruxelles, nonostante garantisca, insieme al suo gemello North-Stream sul Mar Baltico, certezze sugli approvvigionamenti energetici ai Paesi dell’Unione Europea.
Mentre il Congresso degli Stati Uniti aveva riferito all’ex premier Plamen Orešarski di disporre la sospensione dei lavori del South-Stream in chiara ottica anti-Russia, la Commissione Europea impugnava l’intera normativa comunitaria sulla libera concorrenza contro i lavori del gasdotto in Bulgaria, interrompendo il progetto per l’assenza di un terzo partner in grado di concorrere commercialmente con la russa Gazprom.

Rispetto allo scorso giugno, qualora la Bulgaria riuscisse a completare i lavori del South-Stream e a rispettare la legislazione europea, la Russia riuscirebbe ad aggirare – sebbene in parte – il campo minato creato dal Governo filoeuropeo di Kiev.
La Romania e la stessa Ucraina, Paesi di transito del gasdotto che ad oggi conduce l’energia verso la Bulgaria, rappresentano i due Paesi dei Balcani euroasiatici più ostili alla già forte leadership di Putin.
L’unità d’intenti fuoriuscita dagli incontri tra i Presidenti di Bulgaria, Ungheria e Austria, quest’ultima decisa addirittura a sostenere i costi della conclusione del South-Stream, condurrebbe ad un ulteriore diminuzione delle forniture proprio in Ucraina e in Romania e, conseguentemente, ad un isolamento dei due stessi Paesi.
In tal caso, appare assai difficile che Kiev e Bucarest possano ricevere aiuti energetici da un’Unione Europea che, a sua volta, dipende per circa 1/3 dalle forniture provenienti dalla Russia.

Inoltre, la Bulgaria potrebbe divenire uno dei centri logistici strategicamente più importanti per Mosca, non solo per i due gasdotti gemelli presenti nel Mar Baltico e nel Mar Nero.
Le nuove relazioni tra i due Paesi potrebbero condurre Bojko Borisov ad implementare il ruolo del Paese all’interno dei Balcani grazie al rispristino di due vecchi progetti di fondamentale importanza nella “partita del gas”: il Belen Nuclear Power Point, presente nella città di Pleven, e il gasdotto Burgas-Alexandropoli.
Se il primo progetto sembra essere ormai bloccato a causa dei numerosi rischi ambientali, il progetto del Dzhugba-Burgas-Alexandropoli condurrebbe Mosca a bypassare punti geopolitici importanti come quello del Bosforo e dei Dardanelli.
Dopo il blocco dei lavori avvenuto tra il 2009-2013 a causa dell’opposizione delle comunità locali, il gasdotto riuscirebbe grazie alla sua bipartizione a rifornire l’Italia meridionale dopo essere passato per la Grecia, attraverserebbe inoltre l’Italia del nord arrivando in Serbia, Ungheria, Slovenia ed infine in Austria.
Tale progetto era stato in realtà riconsiderato dall’ex premier Plamen Orešarski e attualmente potrebbe rientrare nell’agenda del Governo di Bojko Borisov; questo accoglimento consentirebbe al Paese di rispettare gli accordi contrattuali siglati dalla Gazprom e dalla Bulgarian Energy Holding.

I nuovi possibili progetti di cooperazione tra Mosca e Sofia nel settore energetico potrebbero ampliarsi anche su altri piani, come quello della sicurezza militare.
La Nato ha imposto nei mesi scorsi alla Bulgaria una modernizzazione del proprio esercito, distaccandosi dalla dipendenza russa ed acquistando nuovi radar 3D come previsto dal Piano 2020 avente l’obiettivo di garantire sicurezza militare ad ogni singolo Stato.
Tuttavia, Boyko Borisov aveva dichiarato prima della sua elezione di non voler rispettare lo stesso programma militare della Nato, in quanto la Bulgaria non dispone di fondi sufficienti.

Le decisioni di Sofia potrebbero focalizzare nel Paese le “attenzioni” della Commissione Europea e della stessa Nato, che ha già dichiarato di voler avallare una procedura d’infrazione contro il Paese.

Il riavvicinamento tra Bulgaria e Russia, soprattutto se incentrato sui piani di sviluppo del settore energetico, rappresentano per le politiche dell’Unione Europea una doppia sconfitta.
La possibile conclusione dei lavori del South-Stream eliminerebbe di fatto qualsiasi funzione strategica del Nabucco, altro gasdotto che attraversa la Bulgaria e che collega la Turchia all’Austria.
Il progetto, fortemente voluto dall’Unione Europea proprio per sostituirsi alle dipendenze del gas russo, oggi sembra essere superato da Mosca nonostante le attuali sanzioni.

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LA MEMORIA NASCOSTA DI NELSON MANDELA

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La disinformazione e l’ipocrisia con cui continua a essere celebrata la figura di Nelson Rolihlahla Mandela hanno dell’incredibile. Un uomo che ha trascorso più di ventisette anni in carcere per aver lottato contro il regime dell’apartheid, un uomo incluso fino a pochi anni fa nella lista USA dei terroristi, un uomo arrestato grazie ad informazioni fornite dalla CIA è stato trasformato dalla propaganda occidentale in una vuota e stucchevole icona del pacifismo libertario. Tutto ciò è avvenuto attraverso una sapiente opera di censura della storia, per mezzo della quale sono state volutamente rimosse la dimensione rivoluzionaria di Mandela e la sua profonda amicizia con alcuni dei leader più odiati dall’Occidente.

Il mito di Nelson Mandela

Un anno fa, il 5 dicembre 2013, a 95 anni, si spegneva Nelson Mandela. Quel giorno, dodici colombe vennero liberate nel cielo di Johannesburg e una folla immensa invase le strade del Sudafrica, intonando canti della tradizione tribale e cristiana. «Governerà l’universo insieme a Dio», diceva uno dei tanti cartelli innalzati dalla gente. Tutto il mondo si fermò per ricordare l’esempio dell’uomo eroico che lottò contro l’apartheid, il simbolo del Sudafrica odierno. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu osservò un minuto di raccoglimento. Il Presidente statunitense Barack Obama lo ricordò come esempio della sua vita e «uno degli uomini più coraggiosi dell’umanità». «Si è spenta una grande luce», commentò il premier britannico Cameron. «Un magnifico combattente», disse il presidente francese Hollande.
Il mito di Mandela era già iniziato quando il leader africano era ancora in vita. Nel 1993, assieme al Presidente De Klerk, viene insignito del premio Nobel per la Pace. Nel novembre del 2009, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decide che ogni anno, il 18 luglio, giorno di nascita di Mandela, verrà celebrato il Nelson Mandela International Day o Mandela Day. Nel 2004, alcuni entomologi gli hanno anche dedicato una rara specie di ragno sudafricano, lo Stasimopus mandelai. Un celebre pubblicitario, citato dall’agenzia France Presse, è arrivato perfino a suggerire di ribattezzare il Sudafrica col nome di “Mandelia”. Mandela è forse il politico che ha ricevuto più premi al mondo: circa 250 riconoscimenti, tra cui cinquanta lauree honoris causa.

 

Chi era Nelson Mandela

Ma chi era veramente Nelson Mandela, quel leader che, dopo aver passato quasi ventotto anni in prigione, i media non hanno mai finito di celebrare, dipingendolo come un pacifista amico dell’Occidente?
Mandela nacque il 18 luglio 1918 a Mvezo, un piccolo villaggio di capanne bianche sulle rive del fiume Mbashe, situato in una fertile vallata dell’Africa Sudorientale. Era figlio di un capo della tribù Thembu, parte della nazione Xhosa. Venne chiamato “Rolihlahla”, letteralmente “colui che tira il ramo di un albero”, che in lingua xhosa equivale a dire “colui che combina guai”. Assunse il nome Mandela dal nonno, ma il suo popolo lo chiamava Madiba, un titolo onorifico adottato dagli anziani della sua famiglia. Il nome di Nelson gli venne, invece, da una maestra della scuola missionaria metodista, dove usavano dare agli studenti dei nomi più semplici da pronunciare rispetto a quelli difficili della tradizione tribale.
Mandela si dimostrò ribelle fin da giovane, quando, insieme al cugino Justice, suo amico d’infanzia, decise di scappare a Johannesburg per sfuggire a un matrimonio combinato dal suo capotribù: aveva solo 23 anni. Due anni dopo s’iscrisse alla facoltà di legge dell’Afrikaner Witwatersrand University ed entrò in contatto con gli ambienti che si opponevano al regime segregazionista sudafricano. Nel 1942 s’iscrisse all’African National Congress, e due soli anni dopo, insieme a Walter Sisulu e Oliver Tambo, fondò la Youth League, l’ala giovanile del movimento, e presto ne divenne il presidente.
Completati gli studi di legge, avviò insieme a Tambo il primo studio legale, che offrirà protezione gratuita o a basso prezzo a molti neri poveri, che non avrebbero avuto altrimenti alcuna assistenza legale. Erano gli anni più bui della segregazione e Mandela si dedicò con passione ad organizzare scioperi e manifestazioni, incoraggiando la gente a disobbedire alle leggi discriminatorie.
Nel 1956 arrivò la prima accusa di alto tradimento e venne arrestato. Fu assolto dopo un lungo e tormentato processo nel 1961. Intanto la repressione si era fatta sempre più brutale e le autorità avevano messo al bando l’ANC. A Nelson Mandela non rimase che un’unica via: quella della lotta armata. Fu così che fondò l’ala militare dell’ANC, chiamata Umkhonto we Sizwe (“Lancia della nazione”, abbreviata in MK) e ne divenne il comandante. Obiettivo dell’organizzazione era combattere il regime segregazionista del Sudafrica attraverso azioni di guerriglia e campagne di sabotaggio contro l’esercito governativo e diversi obiettivi sensibili. Per addestrare i combattenti, Mandela si dedicò a raccogliere fondi all’estero, sia dai Paesi socialisti che da vari governi africani, come la Guinea, il Ghana, il Mozambico e l’Angola. Umkhonto s’ispirava a Mao, a Stalin e a Che Guevara.

 

Come fu che Nelson Mandela venne imprigionato per 28 anni

Erano ormai 17 mesi che Mandela viveva in clandestinità. Una notte, il 5 agosto del 1962, stava attraversando in auto Howick, una cittadina del Natal, quando venne fermato da una pattuglia della polizia. Fu arrestato e condannato a cinque anni di lavori forzati per incitamento alla dissidenza e per aver compiuto viaggi illegali all’estero. Due anni più tardi sarà accusato anche di sabotaggio e tradimento e condannato all’ergastolo.
Come fece la polizia a catturare Nelson Mandela? La vicenda rimase oscura per oltre venti anni. Solo nel luglio del 1986, tre giornali sudafricani, ripresi dalla stampa inglese e dalla CBS, spiegarono l’accaduto. Negli articoli veniva chiarito, con dovizia di particolari, che un agente della CIA, Donald C. Rickard, aveva fornito ai servizi segreti sudafricani tutti i dettagli per catturare Mandela, cosa avrebbe indossato, a che ora si sarebbe mosso, dove si sarebbe trovato. Fu così che lo presero.
Mandela rimase in prigione fino al 1990, quando venne liberato grazie a una grande mobilitazione internazionale.

 

Quello che gli ipocriti vogliono far dimenticare

Mandela per il regime razzista sudafricano era un terrorista. Ma era un terrorista anche per alcuni dei più importanti governi del mondo. Per l’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher e per il presidente statunitense Ronald Reagan era qualcosa di peggio: un terrorista comunista. I governi di Londra e di Washington hanno a lungo considerato il regime di Pretoria un importante baluardo contro i movimenti di liberazione anticoloniale del continente africano e gli hanno fornito sempre il loro sostegno. Alle Nazioni Unite, questi due Paesi hanno sempre manifestato la propria opposizione alle risoluzioni dell’Assemblea Generale che miravano a contrastare l’apartheid, proprio la stessa politica che stanno a tutt’oggi attuando sulle azioni illegali di Israele nei confronti dei palestinesi. Mandela era ormai una delle più grandi personalità del Pianeta ma, fino al 2008, cioè dopo che gli era stato concesso il premio Nobel per la Pace e aveva già ricoperto la carica di Presidente della Repubblica Sudafricana, il suo nome e quello dell’African National Congress erano ancora nella lista delle organizzazioni terroristiche redatta dal governo statunitense.
Nei lunghi anni della prigionia, pochi furono coloro che veramente lo sostennero, non solo verbalmente, ma materialmente, e fra essi ci furono alcuni leader che oggi la stampa addomesticata dell’Occidente, impegnata a riscrivere un’altra storia di Mandela, accuratamente occulta. Ma Mandela, che il sentimento di lealtà non perdette mai, non se ne dimenticò. «Ho tre amici nel mondo», soleva dire, «e sono Yasser Arafat, Muammar Gheddafi e Fidel Castro». Molto stretta e profonda fu, in particolare, l’amicizia con Muammar Gheddafi, che Mandela visitò in Libia soltanto tre mesi dopo la sua scarcerazione. Molti criticarono in quell’occasione la sua visita al leader libico, primo fra tutti Bill Clinton, il Presidente di quello stesso Paese i cui servizi segreti avevano contribuito a incarcerare Mandela ed a fornire il maggior sostegno politico, militare ed economico al regime razzista sudafricano. Ma Mandela, anche in quell’occasione, non mancò di rispondere: «Nessun Paese può arrogarsi il diritto di essere il poliziotto del mondo. Quelli che ieri erano amici dei nostri nemici hanno oggi la faccia tosta di venirmi a dire di non visitare il mio fratello Gheddafi. Essi ci stanno consigliando di essere ingrati e di dimenticare i nostri amici del passato».
Stessa stima e amicizia mostrò nei confronti di Fidel Castro e del popolo cubano. Lo testimoniano le parole che pronunciò il 26 luglio del 1991, quando Mandela visitò il leader cubano in occasione della celebrazione del trentottesimo anniversario della presa della Moncada: «Fin dai suoi primi giorni la rivoluzione cubana è stata fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Noi ammiriamo i sacrifici del popolo cubano che cerca di mantenere la sua indipendenza e sovranità davanti alla feroce campagna orchestrata dagli imperialisti, che vogliono distruggere gli impressionanti risultati ottenuti grazie alla rivoluzione cubana».
Le parole di elogio pronunciate dal presidente statunitense Barack Obama il giorno della morte del leader sudafricano stridono fortemente col pensiero che Mandela aveva espresso in più occasioni sulla politica USA: «Se c’è un paese che ha commesso atrocità inenarrabili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti. A loro non interessa nulla degli esseri umani». Sono parole che Madiba pronunciò al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, quando gli USA si preparavano a invadere l’Iraq.
Chiare sono anche le parole riguardanti il conflitto israelo-palestinese, riferite da Suzanne Belling dell’agenzia Jewish Telegraph: «Israele deve ritirarsi da tutti i territori che ha preso dagli arabi nel 1967 e, in particolare, Israele dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania».
Che fare di fronte alla realtà di parole così chiare? Ai media dell’Occidente libero e democratico non resta che un’unica via: quella della censura e della falsificazione della storia.

 

Funérailles nationales pour Nelson Mandela le 10 décembre, Agence France-Presse, 6-12-2013;
Jean-Simon Gagné, Nelson Mandela (1918-2013): la génèse d’une légende, lapresse.ca, 5-12-2013;
Filippo Bovo, La morte di Nelson Mandela, in “Stato e Potenza”, 6-12-2013;
William Blum, Come la CIA ha fatto imprigionare Nelson Mandela per 28 anni, in “Con la scusa della libertà”, di W. Blum, Marco Tropea Editore, 2002;
What the hypocrites want you to forget about Nelson Mandela: his support of Muammar Gaddafi, in Max Forte, Slouching towards Sirte, NATO’s war on Libya and Africa, pp. 142-43, pubbl. in barakabook.com, 6-12-2013;
Il Sudafrica piange Nelson Mandela. Ma di lui ormai si stravolge tutto, Sinistra.ch, 9-12-2013.

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I SUFI CERCANO UN RUOLO POLITICO IN EGITTO

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A seguito dell’esplosione di un’autobomba nella moschea di Ahmad al-Badawi (luogo in cui si trovavano le reliquie di Al-Sayyid Al-Badawi, fondatore dell’Ordine sufi Badawiyya), il 14 Ottobre 2014, Shaykh del medesimo Ordine hanno rilasciato una dichiarazione in cui accusano i Fratelli Musulmani ed i Salafiti di aver ordinato l’operazione.
Ambienti legati al Sufismo hanno promesso di ottenere ottimi risultati nelle prossime elezioni parlamentari, potendo così annunciare per la prima volta la loro candidatura, coordinandosi con le altre forze politiche presenti sul territorio.
Potrebbero quindi i Sufi essere più moderati al potere, soprattutto per quanto riguarda la religione, rispetto ai Salafiti e ai Fratelli Musulmani?
Sufi e Fratelli Musulmani condividono alcuni punti in comune, soprattutto per quanto riguarda il principio di assoluta obbedienza al capo. I Fratelli Musulmani obbediscono strettamente alla Guida generale del Gruppo (il Murshid), mentre i Sufi seguono gli ordini dello Shaykh.
Su questo argomento, Ahmed Ban, un ricercatore sul tema dei movimenti islamici, ha riferito ad “Al-Monitor”: “Vi è divergenza di vedute tra i sufi al riguardo dell’idea di ‘obbedienza’. Mentre alcuni credono che lo Shaykh debba essere obbedito in pieno, altri invece credono che la loro relazione con lui debba essere più che altro spirituale, e che debba tendere a migliorare e perfezionare la loro condotta”.
Dal canto suo, lo Shaykh sufi ‘Alaa Abu al-Azayem (dell’Ordine ‘Azamiyya), ha dichiarato in un’intervista ad Al-Monitor che “i Sufi non sono un ‘gruppo religioso’ come i Fratelli Musulmani o i Salafiti. Il Sufismo è un modo di vivere, dedicato a migliorare i comportamenti delle persone che ne fanno parte. I Sufi ritengono che lo Shaykh possa commettere errori, perciò non sono costretti ad obbedirlo ciecamente”.
Sufi, Fratelli Musulmani e Salafiti credono nel ritorno del Califfato o di uno Stato Islamico, in linea con il libro Al-Jafr, che è uno dei più famosi libri spirituali dello Shaykh sufi Muhammad Abu al-Azayem, dove si afferma che il Califfato Islamico sarà ripristinato ed adattato ai nostri giorni.
Analogamente, Rifaat al-Sayyed Ahmed, un analista politico, ha dichiarato ad  “Al-Monitor” che “il ritorno del Califfato Islamico è una nozione importante, esiste tra i gruppi religiosi, ma con un grado di flessibilità che si articola in modo diverso a seconda dei gruppi”.
Alcuni gruppi hanno un solo scopo: ripristinare lo Stato islamico, perché non credono nella legittimazione dello Stato laico. I Sufi rispettano lo Stato laico, considerando però lo Stato islamico come una profezia che potrebbe avverarsi”.
In una delle sue dichiarazioni, Abu al-Azayem ha detto di non credere al ritorno del Califfato Islamico. A detta di Abu Al-Azayem, i Sufi hanno fronteggiato il colonialismo in Egitto, nei Paesi Arabi ed in Africa. Ma essi non ripongono un credito assoluto nel Jihad e nella dichiarazione di “infedeltà” per chi non vi crede, come invece è l’abitudine dei Fratelli Musulmani e di alcuni gruppi salafiti.
In Iraq, i Sufi Naqshbandi hanno costituito delle milizie armate in seguito all’invasione statunitense del 2003. Il gruppo non ha limitato il suo ruolo a combattere contro l’invasione americana, ma secondo informazioni riportate da alcuni media esso sarebbe alleato dell’IS, il che avrebbe condotto per esempio alla caduta di Mosul.
Alcuni giornali inoltre hanno riportato che una coalizione degli Ordini sufi in Egitto è stata incoraggiata, già nel 2011, allo scopo di istituire una milizia atta a difendere i luoghi sacri dagli attacchi avvenuti dopo la rivoluzione del 25 Gennaio, anche se tali notizie sono state negate dai dirigenti di tale coalizione.
In una fatwa durante l’assemblea nella piazza di Rabia Al-Adawiya, nel 2013, i Sufi hanno dichiarato che chiunque uccide un membro dei Fratelli Musulmani o dei Salafiti è da considerarsi un infedele.
Tra le critiche mosse ai Fratelli Musulmani, vi è la relazione con l’ormai ex Partito Democratico Nazionale (NDP), quando alcuni attivisti hanno riproposto un’intervista condotta da un giornale egiziano all’ex presidente Mohammed Morsi (formalmente in carica per la commissione parlamentare elettorale dei Fratelli Musulmani). Nell’intervista egli ha dichiarato che i Fratelli Musulmani si sono coordinati con alcuni esponenti dell’NDP , perché essi sono dei simboli della nazione.
Ad ogni modo i Sufi possono essere criticati per le stesse ragioni, in quanto il gruppo prima aveva forti legami con l’NDP. Infatti lo Shaykh sufi ‘Abd el-Hadi al-Qasabi faceva parte del partito, dichiarando che i sufi erano disposti a cooperare in vista delle Elezioni Parlamentari.
Egli ha anche affermato che i Fratelli Musulmani hanno interessi in comune con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti. Ma anche i Sufi sono stati criticati a causa delle relazioni con altri paesi, tra cui l’Iran, il cui rapporto col regime egiziano non è stato ancora definito chiaramente. Tuttavia alcuni organi di stampa sostengono che l’Iran abbia fondato la Federazione Mondiale degli Ordini sufi.
Secondo Rifaat al-Sayyed Ahmed e Ahmed Ban potrebbe essere troppo prematuro ed ingiusto accusare i Sufi di essere fedeli ad alcuni regimi, in quanto l’esperienza politica sufi in Egitto deve ancora realizzarsi.
Ahmed dice che” l’ordine politico-religioso dei Senussi che ha governato in Libia prima della Rivoluzione era duramente criticato per i suoi rapporti con la Gran Bretagna, alla quale il regime ha permesso di stabilire basi militari sul territorio libico, in base al trattato del luglio 1953. Il regime ha permesso la stessa cosa anche agli USA in cambio di aiuti economici. Questa tra l’altro fu una delle ragioni che spiegano il progressivo affermarsi della Rivoluzione. I Sufi in Egitto non devono però essere giudicati alla luce dell’esperienza del regime dei Senussi in Libia”.
Ban e Ahmed sono entrambi d’accordo sul fatto che il Sufismo non ha caratteri estremisti e radicali e non cerca di proibire l’arte, come fanno altri gruppi religiosi.
Secondo Ahmed però i Sufi non credono nel modello liberale di assoluta libertà. Egli afferma che “il Sufismo sta nel mezzo, tra i gruppi religiosi radicali e l’eccessiva libertà che si può trovare in alcuni modelli politici. Il Sufismo è innanzitutto educazione religiosa. I Sufi credono nella rinascita della Sharia, e anche nel dovere delle arti, dei media e delle politiche statali di essere coerenti.
Tuttavia i Sufi sono i meno rigidi ed i più flessibili nell’applicare questa politica”.
Si può dire che Sufi, Fratelli Musulmani e movimenti salafiti condividono molti principi in comune, mentre le differenze stanno nella flessibilità della loro applicazione.
Ma questo potrà solo essere verificato nella pratica, verificando se i Sufi saranno più moderati dei Fratelli Musulmani. Finora gli indizi ci suggeriscono una certa somiglianza.

Fonte: Al-Monitor, 20 nov. 2014
Traduzione per Eurasia-rivista.org di Samuela Armenia

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DOSSIER IRAN E VICINO ORIENTE

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Ali Reza Jalali, Dossier Iran e Vicino Oriente, Irfan Edizioni, Rende (CS) 2014, pp. 86, € 10,00

Le dinamiche del Vicino Oriente, o Medio Oriente che dir si voglia, sono ormai all’ordine del giorno dei principali media nazionali e internazionali, per via dell’importanza strategica che questa regione del mondo, incastonata tra le principali potenze mondiali a livello militare ed econmomico (Unione Europea, Russia, India, Cina, Giappone, Stati Uniti), ricopre ormai da diverso tempo. Senza questo bacino energetico formidabile a basso costo – le principali riserve di gas e petrolio si trovano tra Golfo Persico, Mar Caspio e Mar Mediterraneo – le grandi potenze non sarebbero tali […] Questa pubblicazione, alla qualòe spero possano seguire nei prossimi anni altre, è un insieme di un anno di lavori di ricerca sui temi del diritto costituzionale, delle scienze politiche e delle relazioni internazionali; non uso la parola geopolitica, che ha una sua rilevanza specifica, anche se ormai sembra che questa materia sia molto approssimabile a quella delle relazioni internazionali. Il presente testo è concluso da un saggio del prof. Mohammad Reza Hafeznia, che ringrazio per la collaborazione, uno dei principali esperti di geopolitica e relazioni internazionali in Iran.

(Dalla Prefazione dell’Autore)

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LE ASSURDE SANZIONI ALLA RUSSIA NELL’ERA DELLA “CRISI”

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Pochi giorni or sono, prendendo spunto da una nota diramata dalla banca, la quale invitava i suoi correntisti a recarsi in filiale per bonifici verso paesi colpiti da “restrizioni ed embargo”, osservavo come sia del tutto controproducente e suicida un simile atteggiamento contro la Russia (e l’Iran e gli altri “cattivi”).
Il boicottaggio delle relazioni con Mosca ha davvero qualche cosa di folle perché lo si possa accettare sulla base di mai provate accuse circa le bellicose intenzioni del Cremlino e le ripetute grida sulle sue violazioni dei “diritti umani”.

Oltre a questo, vi è da rilevare la patente contraddizione tra l’ideologia professata dagli occidentali (il “libero mercato”) e la loro prassi, per cui non trovavo di meglio che definirla “la grande frottola della globalizzazione dei capitali. Pur tuttavia, gli strumenti tipici per creare problemi sono stati attivati, e tra questi l’ostacolo alle normali transazioni finanziarie.

Ma per comprendere come si è giunti a tanto, bisogna ripercorrere brevemente che cosa è accaduto con la fine dell’Unione Sovietica.
Fino al 1989 eravamo abituati a pensare ad un Europa divisa in due: una Occidentale, corrispondente a quella parte conquistata dagli americani nel 1945 ed inserita in gran parte nella Nato e nell’area d’influenza politica, economica e culturale dei nostri “liberatori”; un’altra Orientale, satellite dell’Urss, ovvero – fatte salve alcune realtà dotate di una certa autonomia – composta da quei Paesi che, a causa della “Cortina di ferro”, venivano fatti percepire al pubblico occidentale come lontani ed ignoti. Ma a tutti e due i contendenti stava bene così, con la regione euro-mediterranea – Italia compresa – teatro di una continua destabilizzazione, che in realtà serviva a stabilizzare, anche con l’ausilio dell’Entità politico-territoriale del movimento sionista detta “Stato d’Israele”.

Il simbolo di questa divisione a tutto nostro svantaggio era la Germania divisa in due (con altre sue parti smembrate un po’ qua e un po’ là), per cui sbaglia profondamente chi rimpiange l’epoca del Muro, dimostrandosi più innamorato dell’ideologia che della comprensione dei nostri reali interessi.
Poi, tutto d’un tratto, in maniera apparentemente inaspettata, il Muro s’è sbriciolato (o è stato fatto sbriciolare), e come in un effetto domino sono cadute (talvolta riciclandosi dopo aver trovato un capro espiatorio) le varie nomenclature di paesi che improvvisamente diventavano familiari e meno esotici, tanto che l’idea di “Europa” oggi s’è spinta fino all’Ucraina e al Caucaso, aree che prima dell’89 erano percepite come estranee dalla maggioranza degli occidentali.

Dal punto di vista geopolitico, il passaggio dall’Urss alla Csi ha rappresentato la corsa occidentale ad accaparrarsi il controllo delle regioni di quell’anello esterno che risulta fondamentale per la salvaguardia del “cuore” dell’Eurasia.
Ricorrendo anche alle “rivoluzioni colorate”, negli ultimi vent’anni è stato fatto di tutto per far entrare i paesi dell’ex “Europa Orientale” nella “Unione Europea” e nella sua orbita, che tutto è tranne che l’unione dei popoli d’Europa e che tra l’altro è un inganno anche dal punto di vista concettuale, come ho già avuto modo di argomentare.

Fondamentale, per capire la manovra a tenaglia ai danni della Russia, è poi importante sottolineare il fatto che prima che nell’Unione Europea (ed eventualmente nell’euro) questi paesi venivano inglobati nella Nato. A rimarcare che la Nato tutto è tranne che una “alleanza difensiva”.
Si tratta di cose risapute, ma è bene ribadirle: non è la Russia che minaccia l’Europa (e il mondo!), ma l’America e la sua ideologia. Nemmeno l’Urss, di fatto, oltre che garantirsi uno “spazio vitale”, ha mai mirato a sovietizzare quello che esulava dai suoi confini messi in sicurezza. Certamente possiamo discuterne la visione del mondo ufficiale, che possiamo condividere o meno, ma tutto si può dire dell’Unione Sovietica tranne che intendesse attaccarci. È semmai vero il contrario, e la verità è che, ieri come oggi, in mezzo, in uno scontro nucleare devastante, ci finiremmo proprio noi europei.

Questa fretta a fagocitare nell’Occidente quanti più paesi possibili dell’ex Patto di Varsavia era figlia di quella, ancora più forsennata e razionalmente inspiegabile, a concludere in quattro e quattr’otto, a tappe forzate, il “processo di unificazione europea”, a colpi di “trattati” e di moneta unica, che dal 1991, senza mai sottoporre alcunché al giudizio popolare (specialmente in Italia), ci ha portato dritti filati nella situazione di empasse politica e di grave crisi economica e finanziaria che tutti conosciamo.
Non si considererà mai abbastanza il fattore “fretta” per capire come mai, dall’oggi al domani, è stato inculcato ai cittadini dell’Europa Occidentale che si doveva assolutamente “fare presto”. L’Europa “unita” non poteva attendere.

È vero. L’America non poteva attendere che la Russia si riprendesse dopo essere riuscita a piazzare nei suoi apparati vitali un ubriacone e dei parassiti dediti alla dilapidazione delle ricchezze della Nazione.
Il risveglio russo, dopo i colpi inferti per tutti gli anni Novanta (si pensi all’attacco a Belgrado, che oggi sarebbe impensabile), stava nella legge naturale delle cose. E così è puntualmente avvenuto quando al Cremlino è andato Vladimir Putin.
Ma ci sono stati circa dieci anni devastanti, di cui ancora paghiamo le conseguenze. La fase di debolezza della Russia ha difatti coinciso con una stretta del nostro asservimento alla globalizzazione della Nato, la sionistizzazione di tutto il discorso politico ed un crollo verticale della nostra economia.

Oggi che la Russia è tornata un attore di primo piano, agli strateghi del “caos creativo” non resta che ricorrere all’embargo e al boicottaggio, sostenuti dal solito apparato di disinformazione mediatico.
Possiamo permetterci tutto questo? Lo si chieda alle imprese italiane che esportano. Non ai cretinetti dei “diritti umani”, che tanto per loro la “crisi” non c’è.

Bisogna assolutamente capire che il boicottaggio della Russia, così come quello di tutti i paesi presentati a tinte fosche (l’Asse del Male!), non è farina del “nostro” sacco, semplicemente perché non è nel nostro interesse. Al contrario, l’embargo alla Russia è nell’interesse di chi, costantemente animato da una fretta tremenda e sospetta, ci ha messo la camicia di forza di una “unione” che, stante il suo “commissariamento” perpetuo, previene le politiche autonome che ciascuno Stato europeo avrebbe potuto intessere con Mosca una volta caduto il Muro e venuto meno il diversivo ideologico della “Guerra fredda”.

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GEOPOLITICA E GEOSTRATEGIA DEL MEDITERRANEO ALLARGATO

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La forte delocalizzazione dei centri produttivi a favore dell’Estremo Oriente ha permesso al Mediterraneo di assumere un ruolo di centralità nelle strategie di trasporto marittimo, in quanto rappresenta una scorciatoia per raggiungere i mercati più importanti. Le compagnie di navigazione lo interpretano come un perno per la loro attività ed hanno identificato una direttrice di flusso dominante, che attraversa il bacino da est ad ovest, ossia da Suez a Gibilterra, permettendo al Mediterraneo di assurgere al ruolo di cruciale per il trasporto intermodale di lungo raggio, sottraendo il primato alle rotte del Mare del Nord.

L’area del Mediterraneo Allargato geopoliticamente rappresenta un quadrante di instabilità e latente tensione, tali da poter instaurare fenomeni dinamici che potrebbero coinvolgere gli assetti politici, commerciali e strategici a livello globale. In questa regione geopolitica, che comprende anche i bacini del Mar Nero e del Mar Rosso, persistono, infatti, realtà profondamente dissimili fra loro, sia in ragione politico-culturale che economico-militare. È possibile suddividerla in due regioni: il settore Nord, ossia Europa e quadrante russo-caucasico ed il Sud, con l’Africa mediterranea ed il Grande Medio Oriente. Samuel Huntington descrive il Mediterraneo Allargato come un insieme geografico, ma non come un unico sistema politico culturale. Pertanto, è definibile come una regione fisica ove le dinamiche sono regolate dal fattore umano: si tratta di due mondi contrastanti, nei quali permangono religioni, etnie, lingue e politica storicamente inconciliabili.

Nella sua completezza, l’area del Mediterraneo Allargato ha incarnato l’instabilità mondiale con i conflitti arabo-israeliani, le guerre del Golfo, quelle combattute da Iran, Iraq, Pakistan e le missioni internazionali contro il terrorismo. La globalizzazione pare aver acuito l’interrelazione dei fattori di instabilità, alimentando le dinamiche di espansione dei fenomeni transnazionali, con la conseguente frammentazione dei popoli che vi coabitano, favorendo gli elementi di contrapposizione. Il fabbisogno alimentare ed energetico agevola in parte lo stato permanente di tensione geopolitica: le risorse energetiche del Golfo Persico, dell’Asia Centrale e del Mar Caspio valgono il 70% delle riserve mondiali e per il 35% incidono sulla produzione del gas. La crescente domanda mondiale ingenera anche la difficoltà nel trasporto di queste materie, ma in contemporanea assicura la stabilità interna dei paesi produttori, migliorando la qualità di vita degli abitanti. L’accrescimento politico-militare delle nazioni che si affacciano sul Golfo Persico è significativamente correlato alle finalità di stabilizzazione geopolitica dell’area da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, le quali desiderano garantirsi un accesso continuo e stabile allo sfruttamento delle risorse. Altresì, la dipendenza energetica rende le nazioni maggiormente industrializzate vulnerabili ai processi economici fissati dagli esportatori. Ciò è anche la causa indiretta di un disequilibrio politico e strategico subregionale, dove la diversità degli interessi economici dei paesi industrializzati ingenera il rallentamento nello sviluppo di alcuni quadranti con minore capacità produttiva. L’interrelazione fra tali evidenze è all’origine di tensioni e conflittualità, che sono la causa stessa dell’instabilità dell’intero quadrante, come per le regioni caucasiche e, più in generale, dell’area ex sovietica.

La pluralità culturale e religiosa è un fattore di profonda tensione fra i paesi del Mediterraneo Allargato, tale da renderne i confini incerti e non ben definiti. Cattolici, ortodossi, israeliti, islamici e copti, tra loro differenziati anche da aspetti socio-culturali e linguistici, hanno dato luogo a conflitti etnico-nazionalistici, conformando nuove identità di Stati Nazione: le guerre arabo-israeliane e il conflitto israeliano-palestinese continuano a causare una forte instabilità geopolitica globale; il problema curdo è stato una spinta per le frizioni in Turchia, Siria ed Iraq; il collasso dell’Unione Sovietica e dell’ideologia comunista in genere, ha prodotto conflitti interni di tipo nazionalistico-religioso nell’Est Europa. Una condizione multipolare insomma, ove si sono verificati un decentramento dei poteri, un allargamento delle relazioni internazionali ed una mutazione delle dinamiche politiche e sociali fra gli Stati. La crisi finanziaria, associata al processo di transizione verso le nuove economie ed i mercati emergenti, ha inciso in modo determinante sull’equilibrio del Mediterraneo Allargato, i cui effetti negativi hanno avuto alcuni focolai di tensione, come il conflitto nella ex Jugoslavia. L’intervento occidentale, sia politico che militare, è riuscito a limitare le conseguenze degli scontri e la destabilizzazione dell’intero Est Europa. Nel Corno d’Africa, al contrario, l’interdipendenza non è stata risolutiva ed ha portato al collasso dei sistemi politici e militari di Etiopia, Somalia ed Eritrea. Nel Vicino Oriente si sono espansi movimenti di matrice religiosa, assumendo un carattere identitario antinazionalista, ma soprattutto anticolonialista, con particolare riferimento alle ingerenze occidentali, tramutandosi in una aggregazione ideologica delle masse malcontente in opposizione ai regimi al potere.

L’esacerbazione dei movimenti antigovernativi di matrice religiosa risiede nella radicalizzazione dell’islamismo, che è stato tramutato in contestazione anticoloniale con un forte carattere identitario, tale da favorire la strategia di destabilizzazione mediante attacchi terroristici, inizialmente volti all’instaurazione di repubbliche islamiche, ma poi concentrati nella lotta contro l’Occidente ed Israele. L’applicazione delle operazioni eversive in paesi non musulmani ha trasformato le fazioni estremistiche in attori non statuali a carattere transnazionale, poiché sono stati capaci di allargare il proprio campo di azione agevolati da estemporanee alleanze con gruppi esterni.

Il Mediterraneo ha subito profonde modificazioni politiche e strategiche in quanto si è reso protagonista delle evoluzioni sociali: il bacino è stato pressoché esclusiva delle forze aeronavali dell’Alleanza Atlantica, le quali hanno influenzato lo sviluppo dei paesi del Vicino Oriente e nordafricani, ma questo concentrò il confronto con il blocco sovietico nel teatro del centro Europa. Gli effetti negativi dell’egemonia della NATO nel Mediterraneo sono identificabili nell’inasprirsi dei rapporti fra gli arabi e gli israeliani, caratterizzati da un costante aumento della conflittualità, e tale atteggiamento ha favorito l’apertura in politica estera da parte del Cremlino a favore dei Paesi “non allineati”. Il Mediterraneo si è, così, tramutato in una nuova area per il confronto bipolare, ove si sovrappongono al precario assetto geopolitico del Grande Medio Oriente il processo di modernizzazione dei sistemi d’arma e l’evoluzione delle dinamiche economiche occidentali. L’instabilità dell’area si è tradotta nello sviluppo di politiche di potenza volte ai programmi militari e di alleanze, intercorrelate fra gli attori statuali, per il controllo dei territori e delle risorse naturali.

In quest’ultimo caso, le rotte marittime si attestano a ruolo fondamentale nelle dinamiche economiche del Mediterraneo Allargato, in quanto sostengono il flusso principale per l’intero sistema mondiale. Il trasporto via mare delle risorse naturali, per il loro volume, rende strategica la mobilità marittima, sia a causa della globalizzazione, sia per l’interdipendenza economica tra gli attori statuali. Le rotte hanno una valenza strategica, tanto da acuire la vulnerabilità dei canali di sbocco al Mediterraneo ai cambiamenti politici degli Stati che li controllano. In effetti, la fluidità del mercato internazionale è strettamente correlata al trasporto dei beni attraverso l’accesso ai passaggi marittimi e questi sono sotto l’egida di paesi dalle condizioni socio-politiche non sempre stabili. Il Canale di Suez, ad esempio, si trova in un’area geopolitica regionale variabile, che non ne garantisce la totale sicurezza, sia per la minaccia asimmetrica del terrorismo, quanto per i conflitti a bassa intensità, ingenerati dalle dispute di palestinesi, beduini e jihadisti contro lo Stato egiziano.

Gli stretti del Bosforo e Dardanelli sono di difficile percorrenza a causa della morfologia che impedisce la corretta visibilità del braccio di mare ed a ciò si aggiungono le restrizioni che a volte impone il governo turco. Queste sono anche a carattere ambientale, in quanto eventuali collisioni fra unità di notevole stazza, potrebbero provocare una catastrofe per l’ecosistema dello stretto. Non solo la visibilità, ma anche le forti correnti contribuiscono a rendere difficile la navigazione ed in caso di incidente gli stretti potrebbero essere chiusi, in particolare quello del Bosforo, il più angusto fra quelli di importanza strategica per lo scambio delle materie prime. L’unico accesso al Mediterraneo che sembra non essere afflitto da variabilità negative nel breve periodo è Gibilterra.

Il controllo delle vie d’acqua rappresenta un elemento destabilizzante per tutta l’area, ma nell’ambito di una transizione geopolitica verso la stabilità multipolare o addirittura apolare i centri di potere si moltiplicherebbero, sino ad acuire l’incapacità dei Grandi a gestire la logica dell’economia e della politica. Il 2014 è stato indicato dagli analisti come il momento di crescita dei cosiddetti BRICS, l’acronimo che unisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica: i nuovi equilibri del pianeta si svilupperanno in uno stadio di fluidità finanziaria, politica e militare.

L’apolarità è definibile come una paralisi del sistema, da addebitare ad una diminuzione generalizzata del potere in tutte le aree, dove nessun paese sarà in grado di regolare le dinamiche politiche, economiche e militari a livello globale: di fatto si genereranno tanti piccoli centri di valore strategico. Nell’attuale situazione mondiale l’area mediterranea concentra i flussi geoeconomici principali dell’economia globale, è il concentrato delle trasformazioni intercontinentali a livello sociale ed incarna le più nette contraddizioni politiche e religiose. Di fatto il comburente per la transizione all’apolarità.

La regione mediterranea è stretta nei conflitti dei principali attori statuari e transnazionali per l’egemonia sullo sfruttamento delle risorse naturali, sul commercio e sul controllo militare. Si sviluppa pertanto un concetto di potenza fluido, ma che al contempo si potrebbe discostare dai normali canoni, dove l’imprevedibilità rappresenterebbe la variabile più spiccata. Fra queste, il cambiamento sistemico delle Nazioni dominanti, nelle quali si verifica una modificazione degli assetti del potere ed a cui fa eco una rideterminazione delle gerarchie globali. L’equilibrio fra le parti è condizione a garanzia della stabilità, dove l’ordine ed i processi di evoluzione economica sono tra loro correlati e connessi. La teoria generale dei sistemi, come enunciato da Ludwig von Bertalanffy, è un concetto formulato per analizzare i processi degli attori sociali nel quadro dei propri contesti ambientali, dunque delle entità tra loro collegate ed interdipendenti, regolate, appunto, da diverse variabili. Infatti, gli attori tradizionali, UE, USA ed Israele, sono affiancati dai BRICS e questi ultimi potrebbero ridisegnare le rotte sulle quali viaggiano il petrolio ed il gas, rimodellando l’equilibrio delle forze ed ingenerando attriti con le potenze regionali quali la Turchia e l’Egitto. Uno scenario futuribile potrebbe essere rappresentato dall’instaurarsi di una combinazione bilanciata, in seguito all’occidentalizzazione della mappa sociale ed economica della regione prodotta dalle rivolte arabe, con una logica relazione di mercato verso gli altri competitori regionali. Il Mediterraneo diverrebbe un luogo dove sperimentare una politica postnazionale, uno studio agevolato dalla centralità geografica e strategica, nel quale convergerebbero gli equilibri economici mondiali. Le principali minacce ad un immaginabile processo di aggregazione sociale risiedono nei nuovi assestamenti geostrategici, nei quali si evidenzia la saldatura fra diverse formazioni jihadiste, che si stanno amalgamando in una struttura ideologica antioccidentale. La minaccia asimmetrica del terrorismo internazionale muove anche ingenti capitali, un flusso di denaro la cui provenienza, in alcuni casi, è statuale ed interpolato da diverse fazioni sovversive, le quali presentano invece un carattere non statuale. La convergenza dei paesi mediterranei potrebbe essere una soluzione per arginare questa prospettiva, agevolando un’azione multilaterale che possa affermare la statualità dei vari movimenti.

Russia ed Iran rappresentano le variabili che, nel medio periodo, potrebbero cambiare gli attuali assetti: il legame fra loro si è già avviato, a partire dal sostentamento del governo di Bashar Al-Assad, ma una comunione di intenti su più ampia scala avrebbe la conseguenza di implementare il flusso commerciale attraverso lo stretto di Hormuz. Tale situazione agevolerebbe pure l’Unione Europea, ma per iniziare fattivamente il processo di collaborazione è necessario che la Russia appiani le contrapposizioni esistenti con i paesi a maggioranza musulmana dell’Asia centrale. Siffatto scenario non corrisponde esattamente alla strategia statunitense e della stessa NATO, la quale tende al controllo della fascia costiera dell’Eurasia, ossia dalla Penisola Iberica, passando per il Vicino Oriente, sino al Golfo Persico. Questa strategia non è di nuova concezione, ma risale già al 1944, quando il geopolitico Nicholas Spykman, nel suo libro The Geography of Peace, sosteneva che coloro i quali controllano il territorio costiero (Rimland), controllano l’Eurasia, e con essa le sorti di tutto il mondo.
Fra le crisi tuttora in atto nel Mediterraneo Allargato riveste una posizione di preminenza l’immigrazione clandestina, dai forti connotati di carattere umanitario: in sette anni hanno perso la vita diecimila migranti, nonostante nell’ultimo periodo l’Operazione Mare Nostrum abbia tentato di regolare e gestire i flussi migratori. La missione di salvataggio è uno dei punti nodali di contrasto tra gli attori europei, poiché la diversità di interesse ingenera una mancanza di cooperazione e di investimenti economici. Il bacino mediterraneo è fortemente presidiato dalle marine dei paesi rivieraschi e non. Un numero notevole di unità di superficie e sommergibili solcano le acque del Mare Nostrum: gli Stati Uniti sono presenti con la VI Flotta, alla quale si contrappone la task force russa che, sebbene numericamente inferiore, rappresenta la volontà del Cremlino di recuperare la credibilità dell’apparato di difesa che subì un pesante contraccolpo con la fine del Patto di Varsavia. A garanzia degli interessi russi nel Mediterraneo, il V Squadrone è stato rafforzato in occasione della crisi siriana e di quella ucraina ed è anche funzionale alla tutela dello sfruttamento del gas naturale cipriota. Altre unità da guerra sono costantemente in navigazione: fra queste, due sommergibili classe Dolphin israeliani dotati di missili nucleari.

Al fine di conquistare una fluidità sociale e politica, l’UE dovrebbe tentare di ergersi a superpotenza, per diventare l’attore principale del Mediterraneo Allargato, una sfida che deve essere accettata dalla nuova classe dirigente europea. Il primo provvedimento potrebbe essere quello di limitare l’ingerenza della NATO, e di conseguenza quella statunitense, per iniziare un viatico che ridisegni il ruolo geostrategico del Vecchio Continente. L’identità del Mediterraneo è stata ben espressa da Hegel: «È il cuore del Vecchio Mondo, è la sua condizione necessaria e la sua vita. Senza di esso sarebbe impossibile rappresentarsi la storia, sarebbe come immaginare l’antica Roma o Atene senza il foro, dove tutti si radunavano».

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