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Channel: Jóhanna Sigurðardóttir – Pagina 13 – eurasia-rivista.org
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L’INTIFADA DELLA PALESTINA E LA CRESCITA DELLA DESTABILIZZAZIONE IN ISRAELE

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La questione della legittimità e della sicurezza

Israele dalla sua nascita nel 1948 fino ad oggi ha dovuto affrontare i problemi della sua legittimità e della sicurezza come due questioni principali che minacciano costantamente la sua esistenza. Questo stato sin dall’inizio ha dovuto fronteggiare due questioni: la crisi di legittimità all’interno e la mancanza di riconoscimento internazionale, in particolare da parte degli stati arabi e islamici della regione.
Il popolo musulmano della Palestina ha respinto la legittimità del regime di Israele e progressivamente ha costituito i nuclei della resistenza.
La prima resistenza è stata costituita tra il 1918 e il 1948, che ha compreso tre azioni: la resistenza pacifica dei palestinesi, la resistenza radicale e l’insurrezione popolare, la resistenza contro la Gran Bretagna e il Sionismo.
La seconda resistenza si è costituita nel periodo delle guerre tra gli arabi e Israele negli anni 1948, 1956, 1967 e 1973.
La terza resistenza comprende la nascita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, O.L.P., e le sue attività in forma di gruppi di milizia e partigiani tra il 1947 e il 1987.
La quarta resistenza ha visto la nascita dell’Intifada nel dicembre 1987 e continua ancora oggi.
Tutto ciò che la storia e il passato della resistenza dimostrano riguarda il non riconoscimento di Israele da parte dei diversi governi. Questa situazione ha radici nell’amara storia della costituzione di Israele e nei suoi progetti, i quali si possono ritrovare nel libro di Theodor Herzl del 1896, nell’accordo segreto Sykes- Picot del 1916, nella dichiarazione Balfour del 1917 e nella questione del “protettorato” sulla Palestina nel 1918, che praticamente portarono infine alla fondazione di Israele nel 1948.
In queste relazioni erano presentati due progetti, uno maggiore e uno minore.
Nel progetto maggiore si prevedeva la divisione della Palestina, e nel progetto minore si prevedeva la fondazione di un paese federale costituito da due stati, uno arabo e l’altro ebraico.
I paesi arabi, con il sostegno del Consiglio Supremo Arabo, hanno respinto entrambi i progetti e hanno sostenuto la Palestina araba indipendente. Dall’altra parte, il progetto minore non ha avuto l’approvazione dei paesi arabi e del regime sionista, e alla fine nella seduta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, il progetto che prevedeva la divisione della Palestina è stato approvato con 33 voti a favore e 13 voti contrari, e di conseguenza il 14 maggio del 1948 è stata proclamata la fondazione dello stato di Israele.

La questione della legittimità e il processo di dialogo

Il governo d’Israele, per poter risolvere la questione della legittimità e del riconoscimento, ha seguito la via pacifica con il mondo arabo e, servendosi della strategia “né guerra né pace”, ha preparato il terreno per realizzare i suoi progetti ambiziosi. Israele nel 1949 ha firmato l’accordo per il cessare il fuoco con i governi di Egitto, Siria e Giordania, e nel frattempo, con la scusa della frontiera sicura e della sua forza militare, ha rafforzato il processo di dialogo per vedersi riconosciuta la legittimità. Possiamo definire la pace di Camp David come una nuova era nel processo della legittimazione di Israele, anche perché in tal modo questo regime ha potuto stabilizzare ancora di più la sua posizione. Il processo di dialogo è terminato con l’inizio dell’Intifada e la questione della legittimità è ancora irrisolta, e inoltre i processi di pace a Maryland ed Oslo non hanno potuto dare una svolta adeguata.

La questione della sicurezza e la politica della violenza

Il governo d’Israele ha dovuto affrontare le sue questioni di sicurezza all’interno ed all’esterno delle sue frontiere utilizzando i mezzi militari e la violenza. All’interno ha iniziato a massacrare e ad espellere i palestinesi nel periodo tra la divisione della Palestina e la costituzione del governo d’Israele nel 1948, con il massacro di Deir Yassin ad opera del gruppo dell’Irgun guidato da Menachem Begin, e si è servito di questa politica nel territorio occupato diverse volte perpetrando diversi massacri come quelli di Gaza, Kafr Qasim, Tel al-Zaatar, Sabra e Shatila e il campo profughi di Jenin. Inoltre Israele ha applicato da sempre la politica di espulsione e dell’esilio, e ha espulso grande parte della popolazione palestinese dalla sua patria.

Yossef Weitz, ex direttore del Fondo Nazionale Ebraico scrive:

Israele non è abbastanza grande per contenere due popoli, se gli arabi lasciassero il paese allora possiamo dire che è sufficientemente grande per noi. Non abbiamo alternativa se non mandare via tutti. Non deve rimanere neanche un villaggio o una tribù araba.

Seguendo questa politica, progetti e programmi per la costruzione di nuove colonie ebraiche e iniziative per spingere gli ebrei a immigrare in Israele sono stati sempre all’ordine del giorno. Sono iniziate le costruzioni di nuove colonie nelle zone della Striscia di Gaza, in Cisgiordania e sulle Alture del Golan, e si è promossa la stabilizzazione degli ebrei immigrati al fine di ottenere una relativa sicurezza nel paese.

Per quanto riguarda la sicurezza lungo la frontiera, il governo israeliano utilizzò i suoi metodi militari dichiarando guerra nel 1948 agli stati arabi limitrofi, come Giordania, Egitto, Siria e Libano.
In questa guerra praticamente la sicurezza e la sua integrità territoriale furono messe seriamente a rischio ma gli aiuti degli Stati Uniti e il sostegno delle Nazioni Unite salvarono Israele e impedirono la sua sconfitta. Alla fine, con la firma dell’accordo, la guerra si concluse nel febbraio del 1949 e Israele riuscì a raggiungere una certa stabilità, riuscendo quindi a impadronirsi del 77% del territorio al momento di diventare membro delle Nazioni Unite. In tal modo di fatto la proposta della divisione, avanzata dalle Nazione Unite, che prevedeva il 57% del territorio per Israele e il 43% per gli arabi, e la costituzione di un governo arabo indipendente, è stata dimenticata.
Israele, per poter avere maggiore sicurezza e realizzare i suoi progetti ambiziosi, iniziò quindi a rafforzare il suo esercito e nel 1956, dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez, con l’aiuto della Francia e dell’Inghilterra conquistò il deserto del Sinai. A causa del confilitto di interessi tra Francia e Stati Uniti la guerra venne però fermata e Israele abbandonò il Deserto del Sinai.
Nel 1967 Israele, sempre con la scusa di una maggiore sicurezza, ma in realtà per raggiungere il suo obiettivo del “Grande Israele”, sferrò altri attacchi contro i paesi arabi confinanti. In questa guerra Israele bombardò all’improvviso gli aeroporti dell’Egitto e occupò il Deserto del Sinai, la Cisgiordania, la città Santa di Gerusalemme e le Alture di Golan, nonostante la risoluzione 242 delle Nazioni Unite. Questa guerra improvvisa mise a disposizione di Israele le risorse e un territorio quattro volte maggiore rispetto alla situazione antecedente la guerra, e gli conferì una maggiore potenza per poter scongiurare le minacce. Questa vittoria durò comunque poco e non impedì la controffensiva dei paesi arabi che iniziò nel 1973 dall’Egitto e dalla Siria contro Israele per riprendere il controllo dei territori da quest’ultimo occupati.
Iniziò così la guerra del Kippur e la coalizione composta da Egitto e Siria attaccò Israele su due fronti. Nella prima settimana riuscirono a ottenere vittorie notevoli, però nella seconda settimana la situazione cominciò a entrare in un’altra fase con l’arrivo dell’esercito americano in sostegno d’Israele, che riuscì ad entrare in territorio siriano ed egiziano. Alla fine la mediazione delle Nazioni Unite portò, il 24 ottobre 1973, alla fine della guerra.
In questa guerra i paesi arabi non raggiunsero l’obiettivo però riuscirono a mettere se non in pericolo quantomeno in discussione il potere deterrente e la questione della sicurezza d’Israele.
La successiva invasione dell’esercito d’Israele del territorio libanese nel 1982 causò diversi problemi e non poté essere una politica di successo per la sicurezza e alla fine fu destinata a perdere.
Israele per tenersi in vita e mettersi al sicuro prese quindi un’altra decisione politica, ossia dotarsi dell’arma nucleare.
Già nel 1949 si era aperto il Centro di Ricerca Isotopo e nel 1952 il governo di David Ben-Gurion aveva fondato la Commissione dell’Energia Nucleare d’Israele. Con gli aiuti di paesi come gli Stati Uniti e la Francia, Israele riuscì quindi a compiere progressi notevoli nel campo della tecnologia nucleare e ad oggi si presume che questo paese abbia più di 200 testate nucleari, e la sua potenza nucleare è in costante crescita.
Oron, il famoso esperto l’Israele, a proposito dei programmi nucleari d’Israele disse:

Avere a disposizione le armi migliori, e la possibilità stessa di servirsi di queste armi, servono per costringere l’altra parte ad accettare le richieste politiche d’Israele. Una delle richieste è riconoscere ufficilmente le frontiere attuali e firmare l’accordo di pace con Israele.

Con la nascità dell’Intifada anche questa politica ha perso però la sua forza dissuasiva.

L’intifada e la questione della sopravvivenza

Il grande movimento del popolo palestinese contro le politiche feroci del governo d’Israele ha aperto una nuova era nella storia della lotta del popolo musulmano della Palestina.
Questo processo si è evoluto rapidamente dopo la conferenza dei vertici dei paesi arabi nell’aprile 1987 in Oman, che non portò a nessuna presa di posizione contro il regime sionista.
La prima Intifada, che comprendeva la protesta popolare contro l’occupazione della Palestina, aveva i seguenti obiettivi:
1- Evitare di far cadere nel dimenticatoio la questione della Palestina
2- Chiamare l’opinione pubblica a porre maggiore attenzione
3- La necessità di risolvere il problema della Palestina
4- Mettere a rischio la sicurezza interna del regime sionista
5- Evidenziare le dispute dei vari gruppi palestinesi e costringere i governi e le organizzazioni che gestivano la questione della Palestina a ricercare i loro interessi comuni.

Uno degli eventi importanti nella storia della lotta contro Israele è stato il ritiro di Israele dal sud del Libano. Questa azione si è compiuta senza la firma di nessun accordo e in modo unilaterale il 24 maggio del 2000, ponendo così fine all’occupazione del sud del Libano dopo 22 anni .
Questo fatto viene considerato la prima sconfitta militare dell’Israele nella sua storia e la prima vittoria politica, ideologica e simbolica dell’Organizzazione “Hezbollah”.
Talal Atrissi considera questo ritiro come un obiettivo che tutti i governi d’Israele stavano cercando, da Yitzhak Rabin e Shimon Peres a Ehud Barak, ma avevano dovuto affrontare due problemi:
Prima di tutto la preoccupazione per la situazione delle frontiere dopo il ritiro; secondariamente, Israele desiderava che questo ritiro venisse fatto sulla base di un accordo regionale, in particolare con la Siria, ma ciò non fu possibile in quanto Israele non poteva più sostenere le perdite nel sud del Libano.

Il ritiro di Israele e la vittoria di Hezbollah hanno rafforzato il fronte anti-Israele e favorito l’avvento della seconda Intifada.
Qualche giorno dopo la liberazione del sud del Libano, Seyyed Hassan Nasrollah, Segretario Generale di Hezbollah, a Bent Jbail ha dedicato questa vittoria al popolo palestinese e ha annunciato il suo sostegno alla secondo Intifada, chiedendo al mondo arabo di fare altrettanto.
L’ingresso provocatorio di Ariel Sharon negli spazi della Moschea di al-Aqsa incrementò la lotta contro Israele, preparò il terreno per l’Intifada e causò le dimissioni di Ehud Barak, e dunque un’altra sconfitta per Israele.
Visto la crescita della violenza politica d’Israele, il processo del sostegno all’Intifada prese una corsa più rapida e costrinse il regime ad affrontare una destabilizzazione generale e la crisi della sua sicurezza in modo che, nonostante la sua potenza militare, deve tutt’oggi lottare per la sua sopravvivenza.

L’intifada e la politica estera dell’Iran.

L’Iran Islamico nella sua politica estera ha sostenuto da sempre la Palestina e ha sempre chiesto il ritorno dei profughi alla loro patria e l’istituzione dello stato indipendente della Palestina. La proclamazione, da parte dell’Imam Khomeini, della giornata mondiale di al-Quds è stato un segno importante che dimostra il sostegno dell’Iran dalla Palestina.
L’Imam Khomeini nel suo discorso del 7 agosto 1979 ha proclamato la giornata mondiale di al-Quds con queste parole:

Possiamo proclamare l’ultimo venerdi del Sacro mese di Ramadan, che coincide con il periodo di Laylat al Qadr (la notte del destino), e può essere anche la chiave principale per il destino del popolo della Palestina, come la giornata di al-Quds. I musulmani in una cerimonia internazionale possono annunciare la loro solidarietà e il sostegno ai diritti legittimi del popolo musulmano.

Inoltre l’Imam Khomeini nel suo messaggio del primo agosto del 1981 definisce la giornata mondiale di al-Quds come il giorno degli oppressi, e nel suo libro intitolato “Il governo islamico” afferma:

Il movimento dell’Islam sin dall’inizio ha dovuto lottare con il sionismo, sono stati loro ad iniziare i complotti e la propaganda anti-islamica, e come vedete continua ancora.

L’Imam Khomeini ha sempre rifiutato il processo di pace tra arabi e Israele e ha invocato la resistenza contro Israele. Egli a proposito degli accordi di Camp David disse:

Camp David è solo un inganno e un gioco politico e niente altro per poter giustificare le continue violazioni di Israele dei diritti dei musulmani.

Recentamente, la Repubblica Islamica dell’Iran, nell’ambito dei suoi impegni in politica estera, ha organizzato a Teheran la Conferenza Internazionale per il sostegno all’Intifada, che ha visto la partecipazione delle delegazioni di 35 paesi islamici, delle organizzazioni palestinesi, dei leader del Movimento Hezbollah e di 300 personalità indipendenti.

I partecipanti hanno annunciato il loro sostegno all’Intifada e hanno concordato sui seguenti punti:
l’istituzione un comitato internazionale parlamentare per la difesa dall’Intifada, la condanna del sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’istituzione di una corte internazionale per processare i criminali di guerra di Israele, la richiesta dell’attivazione di comitati per promuovere delle sanzioni contro Israele.

Per concludere, possiamo dire che, considerando l’incremento del processo dell’Intifida e la crisi della legittimità e della sicurezza, il regime sionista affronta nuove crisi che mettono a rischio la sua stessa presenza, e ormai le politiche ambigue di pace e violenza non possono più essere considerate adatte a risolvere la questione. Pare che il regime sionista debba rassegnarsi davanti alle richieste legittime del popolo palestinese più di altri tempi.
Il regime sionista, essendo consapevole del problema della sua legittimità, a volte con un linguaggio di pace e a volte di guerra ha violato e continua a violare i più elementari diritti umani nel territorio occupato e ferisce la coscienza umana.
La storia contemporanea può testimoniare diversi esempi del comportamento violento e disumano del regime sionista nell’arco della sua non lunga storia. Il massacro di centinaia di persone con la scusa dell’uccisione di tre israeliani, l’attacco contro i civili e la distruzione delle loro abitazioni ne sono un esempio lampante.
Oggi la questione della Palestina non è solo un problema dei paesi arabi ed islamici, bensì è diventata un problema umanitario. L’occupazione e le azioni criminali commessi sono una grande catastrofe umana e rappresentano la questione più importante a livello mondiale.
Purtroppo oggi i paesi arabi ed islamici e addirittura i paesi che si presentano come i difensori dei diritti umani nel mondo sono indifferenti nei confronti di queste azioni criminali e si limitano a dare mere indicazioni politiche.
L’omicidio di Mohammed Abu Khdeir ha causato l’incremento della tensione nei territori occupati e gli attacchi dell’esercito sionista, armato fino ai denti, vengono portati avanti sia per via aerea che terrestre contro il popolo indifeso della Palestina, provocando diversi feriti e morti.
La reazione del mondo non è andata, come detto, oltre generiche indicazioni politici, mentre il regime sionista continua a massacrare i palestinesi. Addirittura l’uccisione dei palestinesi è diventato un spettacolo divertente per alcuni giovani estremisti d’Israele che, seduti su una collina, si emozionano a vedere il bombardamento di Gaza.
Dopo l’uccisione di centinaia di palestinesi Israele vorrebbe dimostrare la sua “clemenza” accettando la proposta di pace avanzata di un altro paese per coprire le sue azioni criminali, pretendendo che il popolo di Gaza, e in particolare il movimento di resistenza, accetti immediatamente il cessate il fuoco!
Ancora un’altra volta il mondo si trova davanti a un esame di coscienza, per vedere come agisce nei confronti delle azioni barbariche del regime sionista.
Si spera che gli organismi internazionali rispettino i loro impegni nei confronti dell’umanità e si assumano la loro responsabilità per impedire l’occupazione e l’oppressione della patria altrui, e permettano che il popolo palestinese possa decidere liberamente il suo destino.

Ghorban Ali Pourmarjan
Direttore dell’Istituto Culturale dell’Iran – Roma


IL RISCHIO SISTEMICO È PIÙ ELEVATO ORA RISPETTO AL 2008

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A partire dalla crisi del 2008, è stata devoluta grande attenzione da parte dei regolatori del sistema finanziario al rischio sistemico, ovvero la possibilità che qualche evento potesse causare la crisi dell’intero sistema bancario e non solo di una singola banca. Migliaia di pagine di regolamentazioni finanziarie sono state stese in proposito, e un gran numero di discorsi sono stati fatti sull’argomento, in particolare su come adesso abbiamo appreso il pericolo della filosofia “too big to fail” (Troppo grande per fallire) e pertanto il rischio di un crash finanziario come quello del 2008 non possa ripetersi nuovamente. Non c’è bisogno di dire che queste tesi sono senza senso; il rischio sistemico è più elevato ora rispetto al 2008. In aggiunta, la prossima crisi sarà quasi certamente peggiore dell’ultima.

Il problema principale addotto dalla legislazione del “Troppo grande per fallire” è l’idea che alcune banche sono così espanse che il loro fallimento possa causare un collasso economico catastrofico che debba poi essere pagato a tutti gli effetti dai contribuenti con le loro tasse. Non vi sorprenderà, però, sapere che per me questa non è la questione centrale.

Un gran numero di rischi nel sistema bancario dei giorni nostri sono presenti in un vasto numero di enti, tutti altamente interconnessi tra loro e sempre più dipendenti l’uno dall’altro. In tal maniera, il fallimento di un’istituzione di media grandezza, se sufficientemente connessa al sistema nella sua globalità, potrebbe avere implicazioni sistemiche. Allo stesso tempo, più o meno tutte le banche usano sistemi di management del rischio molto simili (e spuri), mentre la leva finanziaria, sono entrambe aperte ma più pericolosamente nascoste, è elevata in tutto il sistema. Una politica monetaria folle risulta folle per tutti e se dovesse accadere un disastro tecnologico, questo si ripercuoterebbe anche sui software usati da una gran parte dei sistemi bancari nella loro totalità. Ci sono un buon numero di ragioni per dissolvere i grandi agglomerati di banche, ma dissolverli in una maniera fine a se stessa, non risolverebbe il problema del rischio sistemico.

Il rischio sistemico è stato esacerbato dalla finanza moderna per diverse ragioni: l’interconnessione elevata del sistema è una di queste ragioni, dal momento che è un intreccio di contratti derivativi che arrivano ad un totale nominale di 710 miliardi di $, che si interseca per tutti gli enti mondiali (dato aggiornato a dicembre 2013 secondo i calcoli della BIS – Bank for International Settlements, ndt).

Alcuni di questi contratti come quello relativo ai 584 miliardi di $ di interest rate swaps (CDS) e options hereon, hanno un rischio potenziale quasi elevato come il loro ammontare nominale. In aggiunta, ci sono 25 miliardi di $ di contratti “non allocati”. Il mio sonno e reso irrequieto dal pensiero che il 150% del prodotto interno lordo degli USA (GDP) è situato in contratti che i regolatori del sistema non riescono a “definire”

Il problema è anche reso peggiore dalla non liquidità di molti di questi strumenti. Un tipo di derivati esotici con una maturazione a lungo termine che è probabile scambiare davvero raramente una volta che il flusso di creazione iniziale è terminato. Questi rischi sono alleviati dai contratti standard trading relativi ai cambi. Ma anche se il management di rischio delle banche fosse buono, il fallimento, Dio non lo voglia, di una maggiore controparte o di un exchange, causerebbe un disastro sistemico a causa delle strette interconnessioni.

Un altro rischio sistemico reso potenzialmente peggiore dalla moderna finanza è quello relativo ad un inadeguato management di rischio. Il management di rischio non è per nulla differente rispetto a quello del crash del 2008. Più di tre anni dopo il crash (e quasi due anni dopo che Kevin Dowd e io avevamo analizzato i suoi fallimenti nel management risk in “Alchemists of Loss”), J.P. Morgan stava ancora utilizzando una variazione sul Value-at-Risk per amministrare le posizioni dei suoi indici CDS nel disastro di London Whale. J.P. Morgan riuscì a “sopravvivere” a quell’episodio, ma da una prospettiva di risk-management, per nessuna logica ragione, le perdite avrebbero potuto essere di 100 miliardi di $, come anche di 2 miliardi di $, cosa che non avrebbe permesso loro di “sopravvivere”. I regolatori del sistema non hanno fatto niente per risolvere la questione. Invero, la nuova regolamentazione Basel III continua a permettere alle più larghe banche di disegnarsi da sole il proprio sistema di risk-management, una ricetta per il disastro sicuro.

Potreste pensare che il management di rischio, sia almeno un problema esacerbato dalla stazza delle banche “troppo grandi per fallire”: in realtà, non è del tutto così. Ogni banca commetterà i propri disastri di trading, alla stessa maniera un ritorno a banche più piccole diminuirebbe la grandezza dei disastri di trading, rendendoli però non meno frequenti, sarebbe sicuramente un miglioramento (e i successore della London Whale sarebbero meno portati alla megalomania e ai tentavi di controllo dell’intero mercato). Dall’altra parte, se il mercato nel suo complesso fa cose non contemplate nel sistema di management di rischio – come in David Vinar, Goldman Sachs “25 movimenti di deviazioni standard, in fila per diversi giorni” nell’anno 2007 – dal momento che tutte le banche usano sistemi di rischio simili con simili andamenti, sono tutte portate naturalmente a collassare nello stesso momento, producendo un collasso sistemico. Come spiegherò a breve, credo che il prossimo collasso dei mercati possa aver luogo in simultanea in tutti gli asset, senza possibilità di fuga. Così un collasso globale bancario del sistema di management del rischio, che vada ad impattare sulla stragrande maggioranza degli asset, causerà perdite a tutte le banche più importanti. Nessun accumulo di regole potrà mettere ordine in questo campo.

La finanza moderna ha anche reso il sistema di rischio peggiore, a causa della sua incomprensibilità, opacità e velocità. Né i trader e neppure gli analisti quantitativi che disegnano nuovi secondi e terzi ordini di contratti derivativi hanno idea di come quei contratti si comporteranno in una situazione di crisi, dal momento che sono sopravvissuti al massimo ad una crisi e il loro comportamento è stato sia quello di far da leva, ma anche separato dall’attività sottostante o dal gruppo di attività. Le banche non conoscono i rischi delle loro controparti e così non possono valutare la solidità dell’istituzione con cui stanno avendo a che fare. Per quello che riguarda le aree di “fast-trading”, i computer sviluppano algoritmi di trading a velocità elevatissima, così producendo inaspettati “flash-crash” in cui la liquidità scompare e i prezzi salgono in maniera vertiginosa.

L’opacità delle operazioni bancarie è resa peggiore dalle operazioni di tipo “Market to market”, che fanno riportare in maniera assurda alle banche enormi profitti mentre le loro operazioni si deteriorano con la qualità del credito dei loro debiti e il valore di questi debiti diminuisce. Ciò fa sì che i metodi operativi attuali delle banche portino ad una fase discendente, incomprensibile agli occhi degli investitori.

Il problema del “leverage” non è ancora risolto, nonostante tutti i tentativi di controllarlo fatti nel
2008. In aggiunta, gran parte del rischio del sistema finanziario è stato “emarginato” in istituzioni non bancarie come i fondi del mercato monetario, veicoli di cartolarizzazione, veicoli di titoli di credito supportati dagli asset e specialmente, mutui ipotecari REITs (Real Estate Investment
Trusts, ndt), che sono cresciuti molto a partire dal 2008. Questi veicoli sono ancor meno regolamentati delle stesse banche, e ogniqualvolta ci sia stato un tentativo di regolamentazione, è stato fatto in modo errato. Per esempio, sono stati fatti grandi sforzi, con l’appoggio della lobby delle banche, per creare confusione nei Money Market Fund, che da sempre ha solo avuto una perdita inferiore all’1% del valore del fondo. Al contrario, i giganteschi tassi di interesse dei mutui ipotecari REITs, che acquistano mutui ipotecari a lungo termine e si rifinanziano col mercato dei riacquisti, sono più incontrollate e costituiscono un rischio maggiore per il sistema.

Non dobbiamo dimenticare neppure grande ruolo della tecnologia, un sostanziale e crescente contributore del rischio sistemico. Ai nostri giorni le grandi banche sviluppano poco software per loro stessi affidandosi invece a “pacchetti” grandi e piccoli forniti da sviluppatori esterni. Il bug “Heartbleed” dell’aprile 2014 ha mostrato che anche piccoli programmi come OpenSSL, universalmente utilizzato, possono essere attaccati in diverse maniere e risultare molto difficili da difendere e portare così vulnerabilità all’intero sistema bancario. Un hacker con cattive intenzioni nella vasta sfera di influenza russo-cinese, o anche un ragazzo da casa propria, potrebbe produrre un bug in qualsiasi momento in grado di intrufolarsi nei sistemi di protezione comuni alla maggior parte delle banche, danneggiando o anche compromettendo definitivamente il sistema nella sua globalità.

Comunque, il più grande fattore che determina il rischio sistemico e la ragione per cui è peggiore oggi rispetto al 2008, è la politica monetaria: questa si è espansa al di sopra delle proprie possibilità a partire dal 1995, e come effetto ha avuto un boom della finanza ipotecaria tra il 2002-2006, anomalo anche che nelle aree meno prospere e le persone più povere ricevessero più finanze sul mutuo rispetto alle persone ricche. In ogni caso, questo incoraggiamento alla “leva” non è mai stato così grande come nel periodo a partire dal 2009. Come conseguenza i prezzi degli asset sono cresciuti a livello globale e il “leverage” sia aperto, e in maggior parte anche quello nascosto, è aumentato di dimensioni.

In generale, i tassi di interesse molto bassi, incoraggiano a prendersi dei rischi. I regolatori delle politiche monetarie teorizzano fantasiosamente che tutto ciò produrrà molti più “imprenditori da garage”. In realtà, le banche non faranno prestiti agli imprenditori, così, più semplicemente, si produrranno più artisti della speculazione in giacca e cravatta. Il risultato è un incremento del rischio. Quando la politica monetaria è così estrema per molto tempo, il risultato è più rischio sistemico. E’ molto semplice.

Di preciso, sotto quale forma si presenterà il collasso e quando arriverà, non è ancora chiaro. E’ probabile che sarà altamente inflazionistico. Se i 2.7 miliardi di $ di riserve in eccesso nel sistema bancario USA cominciano ad essere dati in prestito, il contraccolpo inflazionistico sarebbe molto rapido. In ogni caso, è anche possibile che la montagna di investimenti errati, conseguenza della politica monetaria scellerata degli ultimi cinque anni, possano collassare sul loro peso senza un aumento dell’inflazione. In qualsiasi caso, il crash del sistema bancario che accompagnerebbe la regressione economica, sarebbe molto più pesante dell’ultimo, perché il prezzo degli asset che lo causa non sarà solo confinato al mercato immobiliare, ma sarà, in misura maggiore o minore, a livello globale.

Dopo tutto ciò, il rischio sistemico sarebbe molto ridotto, principalmente a causa del fatto che non resterebbe molto del sistema bancario.

(Traduzione di: Marco Nocera)

Fonte: http://www.atimes.com/atimes/Global_Economy/GECON-01-170614.html

Articolo completo:
http://www.prudentbear.com/2014/06/the-bears-lair-systemic-risk-isworse.html#.U9Y_Ll69fL8

ERITREA E ITALIA: UN PARTENARIATO POSSIBILE E ALTERNATIVO?

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Nel rapporto elaborato nei giorni scorsi dal Dipartimento di Stato USA sulla “libertà religiosa” nel mondo, l’Eritrea è stata riconfermata nella lista che comprende i paesi peggiori, insieme ad Arabia Saudita, Myanmar, Cina, Iran, Corea del Nord, Sudan, Turkmenistan e (per la prima volta) Uzbekistan.
Oltre alle pressioni statunitensi, il Governo di Asmara deve far fronte alle critiche provenienti da quel variegato mondo della sinistra “umanitaria” impegnata a difendere più i diritti dell’individuo che quelli dei popoli nel loro complesso, ma riesce a mettere d’accordo ex comunisti e liberali milanesi (Manfredi Palmeri) che ne hanno recentemente chiesto l’esclusione dall’Expo (insieme a quella dell’India …).
Il “regime eritreo”, in quanto sgradito all’establishment atlantista, viene infatti accusato di perseguitare politicamente i propri cittadini e di costringerli ad emigrare; in realtà, solo poche settimane fa, migliaia di eritrei si sono ritrovati per una grande festa di tre giorni al Parco Nord di Bologna senza alcun problema.
Se è vero che qualche sparuta contestazione c’è stata, questa sembra più riconducibile ad elementi dell’alta borghesia eritrea, oggi in rotta con il Governo di Asmara, che al proletariato affamato e ribelle.
Molto più saggiamente, dopo il totale disastro libico provocato dagli stessi critici di cui sopra (sinistra “umanitaria”, liberali e atlantisti), il Governo italiano tramite il Viceministro degli Esteri Lapo Pistelli, ha incontrato il Presidente eritreo Isaias Afewerki, per affrontare insieme le questioni migratorie e del traffico di uomini conseguente.
Esattamente come il Governo Berlusconi faceva, altrettanto opportunamente, con l’ex capo libico Gheddafi, sia per ragioni di sicurezza sia per assicurarsi vantaggi economici.
Ora, sperando che questi accorgimenti diplomatici del Governo di Roma non siano il preludio ad un’altra “bancarotta” come quella registrata a Tripoli per colpa di Washington, Parigi e Londra (e per la subordinazione italiana a queste tre capitali), bisogna brevemente ricordare alcune cose.
Innanzitutto l’Eritrea si trova sottoposta ad un assurdo embargo dell’ONU (astenuti Russia e Cina) dopo essere uscita dalla guerra difensiva con l’Etiopia (che cercava uno sbocco al mare); eppure quest’ultima, insieme a Kenya ed Uganda, continua imperterrita ad invadere i paesi vicini come la Somalia senza riceve sanzioni di alcun tipo: è evidente la strumentalità della condanna ad Asmara.
In secondo luogo l’Eritrea, il cui unico crimine pare essere quello di non aver voluto concedere una base militare agli Stati Uniti (1), da sempre interessati al controllo geopolitico di un’area che si estende fino agli strategici Sudan ed Egitto, è comunque un paese ricco di risorse naturali (metalli, minerali preziosi) e con possibilità di investimenti nel settore ittico, turistico, agricolo e delle infrastrutture.
E’ altrettanto evidente l’interesse dell’Italia, nazione storicamente legata all’Eritrea, a tutelare e a sviluppare ulteriori accordi politici e commerciali con quel paese, ignorando l’ipocrisia di buona parte della Comunità Internazionale.

1) http://www.eritreaeritrea.com/tutto%20cio%20che%20non%20dovreste%20sapere%20sull’Eritrea.htm

Stefano Vernole è Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici

ESCALATION A GAZA: RAPPORTI E STRATEGIE (ANALISI CESE-M)

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Analisi di Emma Ferrero, Marco Arnaboldi, Giovanni Bronte e Gaetano Mauro Potenza.

Nei più classici approcci alla dottrina geopolitica, lo studioso che si interroga circa situazioni apparentemente prive di razionalità elabora modelli analitici ad ampio raggio in grado di spiegare ex tunc comportamenti e strategie operative degli attori coinvolti, inserendo così la totalità degli eventi in un piano metodico funzionale a determinati obiettivi. Nell’intraprendere un’ analisi delle condotte dei vari protagonisti dell’ennesimo scontro armato fra Palestina e Israele, appaiono evidenti fin da subito alcuni aspetti storicamente innovativi: una mutazione de facto dei rapporti endogeni agli attori, la presenza di nuovi player regionali e, cosa più
allarmante, una velata schizofrenia di intenti e propositi, probabilmente causata da errate valutazioni del proprio ed altrui potenziale, la quale distorce e devia fortemente anche i meglio intenzionati tentativi di decodificazione che vengono portati avanti da ricercatori ed esperti.

http://www.cese-m.eu/cesem/2014/07/analisi-cese-m-escalation-a-gaza-rapporti-e-strategie/

IL VI VERTICE DEI BRICS E IL MUTAMENTO DEGLI EQUILIBRI GLOBALI

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I recenti avvenimenti sul piano internazionale suggeriscono che vi sia in atto una trasformazione degli equilibri globali e delle relazioni tra i grandi attori continentali, nel senso di un superamento del paradigma unipolare che ha dominato la scena mondiale negli ultimi 23 anni.(1) Tale prospettiva sembra delinearsi con sempre maggior forza se si guarda all’irrigidimento degli Usa e dell’Europa rispetto alla Russia (e agli iterati tentativi di avanzamento della linea di fronte della Nato nei territori delle ex repubbliche sovietiche), nonché alla fedeltà perenne al paradigma neo-liberale (figlia di una scienza economica affermatasi solo nell’ultimo trentennio) delle istituzioni finanziarie di Bretton-Woods, i cui programmi continuano a venire imposti nei paesi del vecchio continente, fattori di un arroccamento delle potenze occidentali all’interno delle proprie vetuste strutture militari ed economiche che hanno dominato la scena globale dalla fine della seconda guerra mondiale. Questa chiusura sembra spia di una difficoltà strategica di fondo che porta ad un inasprimento delle relazioni coi paesi concorrenti o percepiti come nemici sulla strada dell’egemonia globale.
I tentativi di spiegare la recente svolta negativa nei rapporti russo-americani come “ritorno alla guerra fredda” non rendono giustizia del quadro globale, limitati come sono a un punto di vista che presuppone un equilibrio ancora bipolare, ormai estinto. La guerra diplomatica in atto tra Russa e Stati Uniti andrebbe contestualizzata nel quadro della dinamica degli equilibri globali a favore dei paesi emergenti, come provano le decisioni prese dai BRICS durante il sesto summit tenutosi a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio scorso, avvenuto nella cornice dei mondiali di calcio, onde accrescerne la visibilità (anche se in Occidente tale notizia ha avuto comprensibilmente scarsa eco). Il summit ha sanzionato la nascita della Nuova Banca di Sviluppo (New Development Bank – NDB), che avrà un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari, che saranno aumentati a 100, nonché di un fondo strategico di riserva (Contingent Reserve Arrangement – CRA) con un potenziale di 100 miliardi per far fronte alle crisi di liquidità, al quale i paesi contribuiranno in percentuale alla ricchezza.(2)
L’accordo per la NDB è stato preceduto dalle visite di Putin e Xi Jinping nel “cortile di casa” degli USA, il Sud-America. Il viaggio del primo ha toccato i paesi di Cuba (dove ha estinto l’intero ammontare del debito contratto dal regime castrista durante il periodo sovietico), Nicaragua, Argentina e Brasile. Gli stessi paesi, tranne il Nicaragua, sono stati oggetto del viaggio del presidente cinese Xi, che in più ha visitato il Venezuela. I rappresentanti di Russia e Cina hanno stretto accordi duraturi con i paesi indiolatini. Le intese hanno riguardato l’apertura di linee di credito, gli ambiti energetico (sulle forniture petrolifere, in particolare tra Cina e Venezuela), infrastrutturale (la Cina finanzierà la costruzione di due dighe in Patagonia e la quarta centrale nucleare argentina), spaziale, industriale e finanziario (con la sottoscrizione di un currency swap tra peso e renminbi nell’intento di scalzare il dollaro come unità di conto argentina). Rilevanti sono stati gli accordi tra Brasile e Cina, che è ormai il primo partner commerciale del paese sudamericano (grande importatore di materie prime brasiliane). (3)
L’obiettivo dei paesi emergenti è ormai apertamente quello di un nuovo ordine mondiale in senso multipolare, che superi i meccanismi di Bretton Woods e veda una partecipazione più ampia (democratica e rispettosa delle sovranità nazionali) degli stessi paesi nelle sedi decisionali mondiali, nella prospettiva di un ribaltamento dell’egemonia americana, espressa dal dominio del dollaro, nuovamente minacciato dopo la firma sull’accordo energetico tra la compagnia russa Gazprom e quella petrolifera cinese Cnpc per la fornitura trentennale di gas naturale russo che prevede il pagamento in yuan.(4)
Le rivelazioni di E. Snowden e il caso “datagate” hanno contribuito certamente ad una accelerazione di questo processo di trasformazione degli assetti mondiali, ancora non chiaro però. Queste hanno svelato che i principali obbiettivi dello spionaggio della National Security Agency erano praticamente quelli della sigla BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).(5) Lo scandalo fu il motivo principale dell’annullamento della visita di Rousseff a Washington, ma oggi altre ragioni spingono sempre più il Brasile a voltare le spalle all’Occidente, tra cui proprio la mancata riforma delle quote di voto presso il FMI rimasta giacente al Congresso statunitense. (6)
Gli stessi dissapori con Washington ha creato la scoperta dello spionaggio ai danni della Cancelliera Merkel in Germania, cui ha fatto seguito l’espulsione del capo della CIA a Berlino.(7) La Merkel in questa occasione ha parlato duramente di “diversità di principi molto grandi rispetto ai compiti assunti dai servizi segreti dopo la guerra fredda”. I recenti tentativi di ricucire la situazione,(8) non è detto se riusciranno a impedire che la Germania possa volgere ad est e defilarsi dalla strategia di rottura dei rapporti con la Russia (soprattutto per le ricadute sui rapporti economici con Mosca), cui costringe oggi una acquiescenza dell’Europa alla linea aggressiva americana.
Recentemente un articolo apparso su Die Zeit critica radicalmente l’appiattimento sulla politica estera di Washington dell’Europa (che si vorrebbe unita), lamentando che la decisione di voler espandere la Nato in Ucraina costituisca la peggiore scelta strategica europea dalla fine della guerra fredda. (9) E nel giudizio espresso dal Die Zeit, come nelle recenti dichiarazioni del governatore della Banca di Francia Noyer, critico verso l’egemonia del dollaro(10), si colgono chiari indizi di un’insofferenza crescente, anche dell’Europa che conta, verso l’unipolarismo.
Le trattative in atto sull’approvazione del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership – TAFTA), che prevede la creazione di un’area di libero scambio tra Europa e USA (e si paventa possa attribuire un potere abnorme alle aziende multinazionali d’oltreoceano), in linea col perseguimento del Partenariato transpacifico (Trans-Pacific Partnership – TPP),(11) risulta una risposta al crescente peso globale del commercio cinese. Rinsaldare i legami economici col vecchio continente risulta il tentativo degli USA di innalzare barriere alla penetrazione cinese e difendere il primato economico, appena intaccato, del commercio e del dollaro statunitense. Il dollaro sebbene ridotto a cartamoneta inconvertibile, conserva per il momento centralità negli scambi internazionali.(12)
Il ruolo dei paesi europei negli equilibri geopolitici globali risulta ancora una volta decisivo. Spetterà a tali paesi e alla realpolitik tedesca decidere se proseguire al traino degli USA oppure risolvere di dotarsi di un proprio piano strategico di riferimento. Bisognerà prima capire, tuttavia, se un “ministero degli esteri europeo”, e se un’Europa politicamente unitaria, possano esistere nei fatti, prima ancora che a livello internazionale.

NOTE
1 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-19/l-egemonia-perduta-america-081130.shtml?uuid=ABnMaPcB
2 http://rt.com/business/173008-brics-bank-currency-pool/
3 http://www.tvsvizzera.it/radio-monteceneri/Cartacanta/Xi-e-Putin-a-spasso-nel-giardino-degli-Stati-Uniti-1545886.html ; http://www.agichina24.it/focus/notizie/cina-cuba-firmano-29-accordi
4 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-05-21/gas-maxi-accordo-cina-e-russia-fornitura-38-miliardi-metri-cubi-annui-123703.shtml?uuid=ABH770JB L’accordo segue la decisione presa dalla Cina il 6 settembre 2012 di pagare in yuan le forniture di petrolio provenienti dalla Russia, vd. http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-09-25/cina-snobba-dollaro-paga-111255.shtml?uuid=AbCWZKjG
5 http://temi.repubblica.it/limes/con-chi-e-contro-chi-spiano-gli-usa/63879
6 http://temi.repubblica.it/limes/dilma-obama-e-i-simboli-di-una-visita-rinviata/51960
7 http://www.lastampa.it/2014/07/10/esteri/datagate-la-germania-accusa-lamerica-espulso-il-n-dei-servizi-usa-a-berlino-5H2rL5zhg8Av1TXr4VtmUO/pagina.html
8 http://www.nytimes.com/2014/07/23/world/europe/germany-obama-merkel-mcdonough-nsa.html
9 http://www.zeit.de/politik/ausland/2014-06/europaeische-interessenpolitik
10 http://lexpansion.lexpress.fr/entreprises/amende-bnp-paribas-christian-noyer-trouve-les-transactions-en-dollar-trop-risquees_1557009.html
11 http://www.cese-m.eu/cesem/2013/05/laccordo-strategico-transpacifico-di-cooperazione-economica-tpp-dubbi-e-riflessioni/
12 http://www.lafinanzasulweb.it/2014/i-brics-contro-il-nuovo-ordine-mondiale-e-su-moneta-e-petrolio-faranno-da-se/

GLOBALIZAREA INSECURITĂȚII ȘI EUROPA DE EST

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Globalizarea reprezintă un proces multidimensional care transformă rapid și în profunzime, printre altele, raporturile geostrategice existente, relațiile dintre state şi implicit aplicarea normelor de drept internațional dintre actorii statali și marile puteri. Acest fenomen dinamic, stimulat politic, generează modificări în structura și echilibrul de forțe dintre puteri, afectează, de cele mai multe ori, grav apărarea și securitatea națională, zonală și continentală, procesul de pace din întreaga lume. Având în vedere numărul focarelor de conflict și tendința de creștere a acestora, pe măsura accelerării ofensivei globale, putem afirma, fără a greși, că pe continentul european și în întreaga lume se înregistrează o agravare alarmantă a instabilității, insecurității, respectiv o tendință generală de globalizare a insecurității.
Insecuritatea este un rezultat al impunerii democrației, indiferent de mijloace, de răsturnare a guvernelor alese legitim și de schimbare a regimurilor politice.

Dacă momentul 11 septembrie 2001, ca ripostă a Statelor Unite, reprezintă debutul procesului globalizării insecurității, criza politică și confruntările militare din Ucraina vin să confirme, cel puțin pentru statele din estul Europei, că acest proces este unul în derulare. Se conturează o permanentizare a insecurității pe măsură ce Uniunea Europeană și NATO, prin mijloace politice, de forță și intimidare, avansează spre Est. Pe acest fond, procesul de pace se alterează, agresiunea armată și violența se amplifică, apar noi riscuri, amenințări și vulnerabilități.

Terorismul internațional ia forma terorismului de stat, mega-terorismul vizează, mai mult ca oricând, intimidarea cu folosirea și chiar posibila folosire a armelor nucleare și a altor tipuri de arme de nimicire în masă secrete și interzise prin tratate și convenții. Toate aceste amenințări implică o ripostă pe măsură, răspunsuri multidimensionale directe și indirecte, în funcție de factorii de risc. Asistăm chiar la o nouă escaladare a cursei înarmărilor, la o revenire la Războiul Rece, de această dată de pe alți parametrii ˝termici˝ și conflictuali. Însăși procesul de integrare a noi state membre în Uniunea Europeană cunoaște un recul. Republica Moldova pierde ocazia integrării, procesul fiind suspendat pentru următorii cinci ani. Situația alimentării insecurității din Ucraina nu va fi un fapt izolat și se va constitui într-un precedent pentru Est ca și în cazul Kosovo. Procesul de fragmentare teritorială, de regionalizare și federalizare nu se va opri la Ucraina. Destabilizarea zonei și alimentarea din umbră a unui focar de război va avea consecințe dezastruoase pentru ambele tabere beligerante. Există, de asemenea, pericolul extinderii ostilităților, atât spre est cât și spre vest, a degenerării conflictului armat într-o conflagrație mai mult decât zonală. O stare de insecuritate extinsă a țărilor nemembre UE, chiar un posibil colaps al Europei de Est, determină corelativ o destabilizare a zonei euro, fapt ce ar putea ridica mari întrebări despre viitorul deja nesigur al Uniunii Europene.

Deşi nu există o definiţie general valabilă a globalizării, în general, ca fenomen economic, acest proces se caracterizează chiar prin scopurile urmărite, respectiv desființarea barierelor în faţa fluxurilor internaţionale de bunuri, servicii, capital şi informaţii. În prezent, există o dezbatere aprinsă asupra amplitudinii şi duratei acestui proces. Unii specialişti, precum John Gray, afirmă că globalizarea reprezintă o transformare epocală a capitalismului, care deja a fost realizată, fiind inevitabilă şi ireversibilă. Alţii, precum Paul Hirst sau Graeme Thompson, susţin că amploarea globalizării este exagerat interpretată şi că nu avem de-a face cu un fenomen, ci cu o accelerare a procesului de internaţionalizare a capitalismului şi a pieţei. În contrast cu aceste accepţiuni este cea care percepe acțiunea globalizatoare drept un al doilea val al procesului, în ansamblu, ce nu are precedent din punct de vedere al caracteristicilor sale şi al numărului de ţări implicate. Anthony Giddens descrie globalizarea ca fiind „nu nouă, dar revoluţionară” şi demonstrează că este „un proces cu mai multe fețe (și mai multe dedesubturi n.n.), cu aspecte diferite ce, adesea, sunt contradictorii.” [1]

Sub toate aspectele ei, globalizarea poate fi înțeleasă din perspectiva a trei teorii principale: teoria sistemului mondial, teoria organizării politice mondiale şi teoria culturii mondiale. Conform teoriei sistemului mondial, globalizarea reprezintă un proces, finalizat în secolul XX, prin care sistemul capitalist a fost propagat pe glob. De vreme ce acest sistem mondial şi-a menţinut câteva dintre caracteristicile sale principale, de-a lungul secolelor, se poate afirma că globalizarea nu este un fenomen nou. La începutul secolului XXI, economia lumii capitaliste este în criză, se poate vorbi chiar de o criză globală. De aceea, conform celui mai important promotor al acestei teorii, Immanuel Wallerstein, actuala celebrare ideologică a aşa-numitei globalizări nu reprezintă altceva decât „cântecul de lebădă” al sistemului mondial. Explicaţia constă în faptul că, în secolul XX, sistemul mondial şi-a atins limitele geografice de expansiune, un fenomen hegemonic mascat, prin extinderea pieţelor capitaliste şi a sistemului de stat către toate regiunile lumii. De asemenea, a fost martorul consolidării Statelor Unite ca unică superputere imperialistă iar sistemul a rămas, în sine, polarizat. Această transformare este denumită de Wallerstein „perioadă de tranziţie”. Noile crize economice nu mai pot fi rezolvate prin exploatarea pieţelor, declinul economic va da naştere la conflicte, chiar în centrul sistemului, iar sistemul va ajunge la un punct critic. Atâta vreme cât această tranziţie haotică nu va conduce la configurarea unei lumi mai democratice, „globalizarea capitalistă” va dispărea.

În accepţiunea teoriei organizării politice mondiale, globalizarea se referă la ˝comprimarea˝ lumii şi consolidarea viziunii asupra acesteia ca un întreg. Promotorii acestei teorii consideră că, la sfârşitul secolului XX şi chiar mai devreme, globalizarea a transformat ordinea mondială într-o problemă. Fiecare trebuie să răspundă reflexiv situaţiei dificile derivate din noua ordine, ceea ce duce la crearea unor viziuni contradictorii asupra lumii, oferind motivaţia supremă pentru susţinerea unei anumite viziuni. Astfel, o lume globalizată este integrată dar nu va fi niciodată armonioasă, este un conglomerat unic, dar divers, un construct al viziunilor împărtăşite sau neîmpărtășite, dar obligatorii, predispus la fragmentare. Este evident faptul că definiţiile globalizării variază de la o regiune la alta, de la o perioadă de timp la alta şi, nu în ultimul rând, de la o ideologie la alta. Sensul conceptului în sine este un subiect al discuţiilor globale: se poate referi la un proces real sau doar la o modalitate de reprezentare facilă a lumii. Termenul nu este neutru; definiţiile evidenţiază diverse abordări ale schimbării globale în funcţie de ideologii. Totuşi, se poate afirma că, în general, globalizarea se referă la extinderea legăturilor globale, la organizarea vieţii la scară globală şi la dezvoltarea unei conştiinţe globale, destinată consolidării unei societăţi globale.

Din perspectiva teoriei culturii mondiale, globalizarea este creşterea şi adoptarea culturii mondiale. Începând cu a doua jumătate a secolului XIX, s-a cristalizat o ordine mondială raţională, instituţională şi culturală, ce constă în modele aplicabile la nivel global, ce configurează state, organizaţii şi identităţi individuale.
Concepţiile despre progres, suveranitate, drepturi etc. au căpătat o mai mare autoritate, structurând acţiunile statelor şi indivizilor şi furnizând un cadru comun pentru disputele internaţionale. La sfârşitul secolului XX, cultura mondială s-a cristalizat drept element constitutiv al societăţii mondiale, un set de prescrieri universal valabile. Această cultură a devenit o moştenire comună, instituţionalizată peste tot pe glob şi sprijinită de multe grupări transnaţionale. Totuşi, ea nu întruneşte consensul general, astfel că implementarea modelelor globale nu va conduce la configurarea unei lumi omogene ci, dimpotrivă, va putea da naştere la conflicte. De exemplu, unii specialişti consideră că lumea reprezintă un ansamblu de comunităţi distincte şi subliniază importanţa deosebirilor existente, în timp ce alţii consideră că lumea se dezvoltă pe baza unui tipar unic, înglobând interesele umanităţii ca întreg. În această lume comprimată, compararea şi confruntarea viziunilor asupra sa poate conduce la izbucnirea unui conflict cultural, în care tradiţiile religioase joacă un rol cheie,

Indiferent de aspectele diferite ilustrate de cele trei teorii enunțate, există cel puțin un numitor comun, cel al unei puternice reacţii de rezistență firească la tendinţele de nivelare brutală și forțată, de ștergere a identităților naționale, de depersonalizare a indivizilor și colectivităților, a entităţilor civilizaţionale, ca şi atenţionări care se cer luate în seamă. Spre exemplu, Samuel P. Huntington, în celebra sa lucrare ˝Ciocnirea civilizaţiilor˝, atrage atenţia asupra faptului că entităţile civilizaţionale sunt realităţi care, în viitor, se pot înfrunta, pentru că ele se opun civilizaţiei occidentale care, în concepţia autorului, „a fost şi este încă agresivă.” Cu alte cuvinte, „strategia civilizaţiei occidentale, ca şi geopolitica ei, trebuie să se reformuleze în termeni civilizaţionali, renunţând la presiunile de altădată. Altfel, viitorul război va fi un război al civilizaţiilor.” [2]

Viitorul vizat de autor este un prezent al zilelor noastre. O asemenea politică și strategie globală, sancționate de Huntington, nasc artificial „granițe de sânge”. În accepțiunea autorului, conflictele locale, cum este cel prezent din Ucraina, riscă să se extindă, sunt cele care se produc de-a lungul faliilor dintre civilizaţii. „Cele mai periculoase conflicte culturale sunt cele care iau naştere de-a lungul liniilor de falie între civilizaţii”, conchide Samuel P. Huntington.

Orice studiu elementar privind problematica securității și insecurității trebuie să aibă în vedere, de la bun început, lămurirea unor concepte precum: amenințare, pericol, vulnerabilitate, risc, apărare.
Putem defini conceptul de amenințare ca reprezentând un pericol potențial, care are un autor, un scop, un obiectiv și o țintă.
Pericolul ar putea fi definit drept o caracteristică a unei acțiuni sau inacțiuni în scopul de a aduce prejudicii valorilor unei societăți, persoanelor sau bunurilor acestora. În cazul pericolului, sursa acțiunii, orientarea, obiectivele și efectele sunt probabile. Pericolul reprezintă o primejdie, un posibil eveniment cu urmări grave.

Amenințarea are indicatori concreți, reprezentând o declarare a unei intenții care poate fi agresivă. Din punct de vedere militar, analiza amenințării poate avea în vedere procesul de examinare a tuturor informațiilor disponibile referitoare la potențiale activități periculoase. Cu cât amenințarea este mai bine conturată, cu atât țintele și potențialul de apărare sunt mai bine evaluate. Natura specifică a amenințărilor, și amenințarea în sine, pot fi înțelese numai în relație cu caracterul particular al obiectului de referință. Domeniile în care pot fi studiate tipurile de amenințări sunt: politic, economic, social, militar, de mediu etc. În domeniul politic, amenințările sunt definite în termeni de suveranitate, independență și integritate teritorială. Obiectele de referință pot fi entități politice atât naționale cât și supranaționale. De exemplu, la nivel național, suveranitatea este amenințată de punerea la îndoială a recunoașterii, a legitimității sau autorității guvernării, iar la nivel supranațional, structurile și organizațiile internaționale sunt amenințate de situații care pot să submineze regulile, normele și chiar instituțiile ce le reglementează sau aplică. Un exemplu recent îl constituie criza de autoritate și legitimitate a guvernării din Ucraina. Pe 22 februarie președintele Viktor Ianukovici, ales democratic, este nevoit să fugă din țară fiind amenințat cu moartea, conform declarațiilor acestuia.

Vulnerabilitățile reprezintă stări de lucruri, procese sau fenomene din viața internă, care diminuează capacitatea de reacție la riscurile existente ori potențiale sau care favorizează apariția și dezvoltarea acestora. În problema crizei politice din Ucraina, principala vulnerabilitate generatoare de conflict armat și insecuritate a fost și este legată de scorul foarte strâns, aproximativ egal, în privința opțiunii populației privind aderarea la Uniunea Vamală cu Rusia sau aderarea la Uniunea Europeană. Conform Institutului Internațional de Sociologie din Kiev (KMIS), 38% din populația Ucrainei se pronunță pentru Uniunea Vamală cu Rusia iar 37,8% dorește aderarea la Uniunea Europeană.
Constituie vulnerabilități pentru majoritatea țărilor din estul Europei, foste comuniste, următoarele:
persistența problemelor de natură economică, financiară și socială generate de întârzierea reformelor structurale;
accentuarea fenomenelor de corupție și de administrare deficitară a resurselor publice;
reacții ineficiente ale instituțiilor statului în fața acutizării fenomenelor de criminalitate economică, de perturbare a ordinii publice și siguranței cetățeanului;
menținerea unor surse și cauze de potențiale conflicte sociale punctuale;
scăderea nivelului de încredere a cetățenilor în instituțiile statului;
menținerea unor disparități de dezvoltare între regiunile fiecărei țări în parte și între țările membre UE aflate la periferie, comparativ cu cele vestice aflate în centrul sistemului unional economic și politic.

Din acest ultim punct de vedere, opțiunea cetățenilor din Ucraina pentru aderarea la Uniunea Europeană este hazardantă și nu ia în considerare situația critică economică a unor țări apropiate care au aderat mai devreme iar în prezent se confruntă cu și mai mari probleme din punct de vedere economic și social.

Amenințările pot fi analizate în raport cu factorii de risc. Pentru orice strategie de securitate a unei țări, factorii de risc pot fi considerați ca fiind acele elemente, situații sau condiții, interne sau externe, care pot afecta, prin natura lor, securitatea țării, independența și suveranitatea statului.

Riscul reprezintă posibilitatea unui pericol, iar vulnerabilitatea drept rezultatul combinării riscurilor existente cu capacitatea de a face față situațiilor riscante interne sau externe. Riscul se concretizează în diferența dintre ˝așteptarea pozitivă˝ și ˝evenimentul negativ˝ ce se poate produce, avându-se în vedere probabilitatea apariției acestuia. Riscul este un rezultat al imposibilității de a cunoaștere cu certitudine a evenimentelor viitoare. Analiza de risc în privința securității naționale poate fi clasificată în funcție de domeniile și sfera de abordare. Caracteristicile care apropie conceptual amenințările de pericole, riscuri și vulnerabilități sunt în legătură cu:
• originea – care poate fi internă și externă;
• natura – care poate fi politică, economică, socială, militară, informațională, etc.;
• caracterul – care poate fi direct și indirect.
Deosebirile dintre conceptele analizate sunt date de genul proxim și diferența specifică care dezvăluie caracteristicile esențiale ale fiecăruia. Amenințările, pericolele, riscurile și vulnerabilitățile, la un loc sau numai o parte dintre ele, sunt conștientizate în mod diferit de către puterile lumii comparativ cu statele naționale lipsite de putere și apărare, chiar și atunci când sunt aflate în același areal geografic sau făcând parte din același sistem ideologic. Sensibilitățile generate de probleme istorice, de tradiții, de nivelul de dezvoltare economică, de putere militară, ambițiile hegemonice, interesele naționale fundamentale, calitatea de membru sau nu la o alianță militară funcțională dau percepției sensuri, nuanțe și particularități diferite. Privite în mod sistemic conceptele supuse analizei se află întotdeauna într-un raport bine determinat. Diferența de percepție reală a pericolelor, amenințărilor, riscurilor și vulnerabilităților dintre Ucraina și Rusia este diferită și contradictorie. Ucraina prezentă, având la conducere un guvern pro occidental, vede în Rusia un inamic potențial ce pune în pericol integritatea ei teritorială. Rusia se simte, de asemenea, amenințată de politica expansionistă a Statelor Unite având concursul diplomatic, motivat economic dar și politic, al Uniunii Europene. Dincolo de declarațiile pacifiste ale celor două părți, aflate în conflict, sunt ascunse tendințe agresive și nu sunt excluse acțiunile sau intervențiile belicoase. Uniunea Europeană solidară cu noul guvern al Ucrainei vizează o Europă lărgită până la Urali, nu numai geografic dar și politic. Rusia lui Putin adoptă, in extremis, o strategie și tactică ofensivă, ca cea mai bună formă de apărare, și reformează sistemul politic și militar cu scopul vădit al constituirii, indiferent de mijloace, a unei noi uniuni, cea a Eurasiei.

După anul 2009, criza globală a luat locul terorismului sub aspectul impactului asupra securității globale a Statelor Unite și a preocupării Administrației americane privind impactul direct. Astăzi, recunoaşte Zbigniew Brzezinski, securitatea Statelor Unite „nu mai este în mâinile Americii ”. [3] Lumea se confruntă cu dificultăţi serioase în depăşirea turbulenţelor provocate de colapsul financiar, în pofida măsurilor extraordinare de salvare financiară luate peste tot în lume. În acest context provocator, securitatea globală este, de asemenea, supusă unor teste extrem de severe. Actuala stare de insecuritate a expus, fără jumătăţi de ton, actuala forţă a globalizării şi, în acelaşi timp, face posibilă disoluţia puterii globale. Tranziţia de la o lume unipolară, bazată pe unicul ˝leadership˝, Statelor Unite ale Americii, către o lume bipolară, tripolară sau multipolară, pare să fi ajuns într-un punct fără întoarcere pe măsura agravării insecurității în Europa de Est. Momentul Ucraina reprezintă piatra de încercare, un moment hotărâtor care separă intențiile și presupusele strategii de acțiunile politice concrete. Se poate vorbi chiar de un concurs de împrejurări și de o cursă aprigă între protagoniști, care doresc să fructifice disoluția statului ucrainean. Situația din Ucraina nu este și nu va fi una favorabilă întăririi, dezvoltării și stabilității statului. Un stat slab, fără putere și posibilități de înarmare, lipsit de apărare și nevoit să ceară ajutor extern, poate reprezenta un deziderat comun pentru marile puteri, chiar aflate într-un conflict diplomatic și politic.

Statele slabe sunt definite drept acele state care nu au capacitatea de a furniza sau nu doresc să furnizeze datele politice fundamentale asociate statalităţii: securitate, instituţii politice legitime, management economic şi bunăstare socială. [4] Aceste state au devenit subiecte la modă, ce par a fi ˝stimulate˝ să se manifeste în relațiile internaționale începând cu a doua parte a anilor ’90, fiind privite ca o epidemie a sistemului internaţional, ale cărei simptome, născute prin combinarea unei largi varietăţi de factori, lăsate netratate, ar putea contribui la propagarea instabilităţii în mai multe zone ale lumii și, implicit, a Europei. Cel mai vehiculat scenariu este, în prezent, cel în care violenţele dintr-un stat slab ar lua amploare afectând şi statele vecine, iar comunitatea internaţională, implicit NATO, ar fi nevoite să intervină. Însă, experiența ˝intervențiilor umanitare˝ trecute, o sintagmă ce ține loc războiului nedeclarat și bombardamentelor strategice, a demonstrat cu prisos că aceste intervenții ale singurei superputeri recunoscute au crescut instabilitatea regională și globală iar consecințele au fost dintre cele mai dramatice. În Europa, acest scenariu a devenit realitate odată cu dezmembrarea Iugoslaviei, iar în prezent prinde contur, după același plan strategic, în Ucraina. Această țară est europeană, de origine slavă, este împinsă într-un război fratricid de secesiune, urmărindu-se federalizarea și enclavizarea regiunii după criterii ideologice și planuri politico-strategice. Nu mai este niciun secret că Maidanul a fost, în fapt dar nu și în drept, un Euromaidan, ce a început cu un val de proteste, demonstrații și tulburări civile în noaptea din 21 noiembrie 2013având ca locație Maidan Nezalezhnosti (“Piața Independenței”, din Kiev), unde a fost cerută, în principal, aderarea și integrarea Ucrainei la Uniunea Europeană. Așa după cum evoluează evenimentele, Ucraina lasă impresia unui stat neguvernat și neguvernabil, ce întrunește aspectul dezolant al unui stat eșuat.

Pentru unele doctrine democrate din lumea contemporană, conceptual de ˝stat eșuat˝ ar reprezenta o formă de organizare politică lipsită de conţinut care nu este capabilă sau nu doreşte să îşi îndeplinească obligaţiile fundamentale ce-i revin ca stat naţional și „trebuie să-și piardă această calitate”. Doctrina ascunde, însă, scopul real, mult mai profund, și anume, extinderea fenomenului globalizării spre est, indiferent de mijloace, politice sau militare. În aceste circumstanțe, statele, în speță Ucraina, este ˝ajutată˝ să eșueze.
Paradoxul este legat, în principal, de infuzia de capital promisă și ajutorul financiar al Uniunii Europene, bani care nu sunt pentru statul ucrainean independent și care se returnează pe alte căi sau vor fi recuperați, ulterior, cu dobândă, ca urmare a politicii impuse de UE viitorului stat membru. Acest joc politic, al pașilor mărunți, ce presupune cedări succesive de suveranitate, va duce în final la pierderea definitivă a independenței și suveranității statului național unitar ucrainean.
Dintre caracteristicile statului eșuat enumerate de Robert Rotberg amintim:
„orientări educaţionale şi medicale degradate sau politici anti-educaționale și anti-sănătate ;
creşterea analfabetismului, promovarea ignoranței și lipsei de reacție civică, a renunțării și nepăsării în plan social;
scăderea severă a factorului demografic prin diminuarea condițiilor de trai, prăbușirea speranței de viață, abandonarea celor în vârstă, scăderea drastică a mijloacelor de subzistență, mărirea ratei mortalităţii infantile, încurajarea contracepției și a avortului etc;
creşterea sărăciei, șomajului, imposibilitatea de a realiza venituri pe măsura creșterii taxelor și impozitelor;
adâncirea prăpăstiei dintre bogaţi şi săraci, între cei puternici și cei slabi;
extinderea corupţiei și înlocuirea domniei legii cu domnia banului;
imposibilitatea de a controla puterea în afara limitelor capitalei
administrative şi pierderea de autoritate în fața administrațiilor regionale
sau locale;
mărirea ratei criminalităţii, a delicvenței și nesupunerii;
creşterea nivelului de insecuritate individuală, socială, națională, regională și globală.” [5]
Situația gravă a statelor eşuate este un rezultat al abandonului social, a colapsului ca strategie, a lipsei unor politici eficiente pe termen lung. Toate acestea, și nu numai, favorizează apariţia conflictelor. Conform lui Robert Rotberg, în statul eşuat se înregistrează un grad ridicat de tensiune internă, un conflict profund şi contestarea puterii de către diverse fracţiuni, forţele militare guvernamentale sunt puse faţă în faţă cu grupări înarmate conduse de unul sau mai mulţi pretendenţi la putere sau cu populația revoltată neînarmată ” [6] ( sau înarmată ca în cazul Ucrainei n.n.)

Aceste state favorizează instabilitatea regională și globală. Parteneriatul strategic Statele Unite – Uniunea Europeană, cu toate acestea, nu își pune problema analizei cost-beneficiu decât în primă fază, stimulând prin acțiuni subversive producerea eşecului și favorizarea intervenţiei post conflict.

În analiza sistemului relațiilor internaţionale actuale operează şi conceptul de colaps al statului cu trei premise de bază.
Prima se referă la prăbuşirea instituţională. William Zartman defineşte colapsul statului drept „o situaţie în care structura, autoritatea (puterea legitimă), legea şi ordinea politică au fost distruse şi trebuie să fie reconstruite într-o formă veche sau nouă. Dacă luăm în considerare această definiţie, colapsul statului ucrainean reprezintă, în primul rând, colapsul guvernului. În acest caz, atât cauza, cât şi remediul sunt legate, mai degrabă, de structurile socio-politice decât de stat în sine, iar intervenţia post-colaps se consideră esenţială și este făcută în interesul celor care intervin. Orice acțiune politică viitoare îndepărtează țara de independența ei.
Cea de-a doua premisă pe care se construieşte teoria referitoare la colapsul statului este aceea că prăbuşirea instituţională este, în general, legată de prăbuşirea societăţii, aspecte adesea privite ca două feţe ale aceleiaşi monede. Motivul principal este acela că, într-o societate slabă, există o instabilitate generală ce alimentează lipsurile instituţionale şi slăbeşte structurile guvernamentale. Este vorba aici despre existenţa unei fracturi în principiile bunei guvernări.

Cea de-a treia premisă este existenţa unei legături evidente între colapsul unui stat şi conflictul armat.” [7] În aceste cazuri, agenţii statali naţionali sunt incapabili să recâştige monopolul asupra mijloacelor forţei, iar bunăstarea şi securitatea sunt fragmentate gradual între un anumit număr de părţi conflictuale care încep să acţioneze pe cont propriu, așa după cum este atât de ușor de sesizat în prezent în Ucraina. Rezultatul imediat constă adesea în creşterea în amploare a violenţei armate şi în pierderea spaţiului teritorial, economic şi politic în favoarea actorilor nonstatali (rebeli) care se nasc din lipsa de legitimitate și autoritate provocate de guvernul colapsat. În viziunea lui Robert Dorff, expert în securitate internaţională la Institutul de Studii Strategice din Statele Unite, eşecul şi colapsul statului sunt părţi ale unui continuum în care un anumit stadiu al eşecului conduce automat la altul. În timp ce diferenţa dintre aceste stadii este, în principal, una de grad, punctul lor comun este acela că toate au origine comună, anume, prăbuşirea generală a corpului de reguli formale şi informale ce guvernează o societate, însoţită de dispariţia autorităţii formale sau a sursei sale.
Guvernarea este, în acelaşi timp, cauză şi consecinţă a eşecului în sfera economică şi a insecurităţii. Francis Fukuyama afirma că „lipsa capacităţii statului în ţările sărace a ajuns să bântuie lumea dezvoltată după sfârşitul Războiului Rece, în anii’90, colapsul sau slăbiciunea unor state provocând deja dezastre umanitare majore.” [8] Autorul enumeră, în acest sens, provincia Kosovo și statul Bosnia și Herțegovina, din Zona Balcanică a Europei de Est. Actualul conflict politic, economic și militar din Ucraina probează afirmațiile analiștilor în domeniu. Din punct de vedere geostrategic ne găsim într-o etapă distinctă de renaștere și revigorare a Războiului Rece, care ia forma conflictului clasic dintre Rusia și Statele Unite la care apare ca element de noutate Uniunea Europeană care este interesată de extinderea politică și economică spre est. Aceasta întreține conflictul ucrainean dar în același timp are o acțiune prudentă în relația diplomatică cu Rusia și una rezervată în relația cu Statele Unite. Interesele economice influențează în mod vădit acțiunea de politică externă a UE. Statul ucrainean, de curând investit cu putere și autoritate, la fel de precare, face dovada servituții, a slăbiciunii, eşecului și colapsului inevitabil. Ultimele trei caracteristici ale statului actual ucrainean sunt stabilite în funcţie de trei elemente inter-relaţionate, cuprinzând tocmai standardele occidentale de dezvoltare. Acestea sunt : guvernarea, economia şi securitatea. Capacitatea actorilor statali de a genera stabilitate zonală este strâns legată de măsura în care aceştia reuşesc să eficientizeze procesul de furnizare a procesului de securitate internă și în zona de influență din imediata apropiere a teritoriului suveran. Guvernul ucrainean este în prezent un generator de insecuritate și chiar alimentează și escaladează un conflict zonal ce poate avea consecințe dezastruoase pentru țările din Europa de Est și chiar pentru stabilitatea economică și politică a uniunii, a întregului proces de integrare și aderare de noi membrii.

Într-o lume globalizată, starea internă a statului are repercusiuni asupra rolului şi statutului acestuia la nivel internaţional. Performanţele interne şi externe ale statelor sunt monitorizate și ierarhizate în funcţie de „Indexul statelor eşuate” [9] elaborat de către experţii Fondului pentru Pace şi de indicatorii guvernării, elaboraţi de către specialiştii Băncii Mondiale, cei mai interesați de evoluția evenimentelor, a crizelor și conflictelor zonale. O astfel de analiză, de care nu este scutită nici Ucraina, trebuie să ţină seama, pe lângă situaţia internă prezentă a statului, de cele două dimensiuni ale prezenţei acestuia pe scena internaţională, anume statutul şi rolul. Statutul internaţional reprezintă poziţia pe care acel stat o ocupă în sistemul internaţional determinată de apartenenţa sa la diverse instituţii şi organizaţii internaţionale şi de puterea sa internaţională, incluzând aici toate dimensiunile specifice (economică, politică, militară, umană, culturală, tehnico-informaţională etc.). Această ierarhizare pornind de la „Indexul statelor eşuate” constituie una dintre cele mai sigure analize a vulnerabilităţii statelor suverane ce duce la conflict și în cele din urmă la colaps. Fondul pentru Pace propune 12 indicatori pentru analiza eşecului unui stat: „presiuni demografice; mişcări masive de refugiaţi sau persoane dislocate intern, ce creează urgenţe umanitare complexe; moşteniri ale unor grupări ce doreau răzbunare sau paranoia de grup; emigrare masivă a clasei medii şi a elitelor profesionale; dezvoltare inegală în cadrul diverselor grupuri sociale; declin economic sever; criminalizarea şi/sau pierderea legitimităţii statului; deteriorarea progresivă a serviciilor publice; suspendarea sau aplicarea arbitrară a statului de drept şi nerespectarea drepturilor omului; aparat de securitate ce operează ca stat în stat; crearea elitelor divizate; intervenţia altor state sau actori politici externi.” [10]

Ucraina joacă în aceste momente rolul de actor manipulat în configurarea viitoare a mediului de insecuritate europeană, dintr-o perspectivă strategică globală. De modul în care zona de influență a NATO și a UE avansează teritorial și politic spre est, vom puterea vorbi de o instabilitate și insecuritate și mai mare în viitor, această acțiune fiind percepută de Rusia drept o agresiune combinată de un real pericol pentru independența și suveranitatea acestei puteri în refacere de forță politică, economică și militară. Din păcate, în aceste zile, pe fondul unui terorism de stat nerecunoscut și neîncriminat, Ucraina alimentează o stare de insecuritate zonală ce tinde să se extindă la fel de periculos atât spre est cât și spre vest.
Puterea, în contextul relațiilor internaționale, poate fi definită drept capacitatea unui stat de a influenţa sau controla alte state iar Rusia deține o astfel de capacitate chiar și în relația cu Ucraina.
Sociologul german Max Weber a definit puterea ca şansa unui actor politic de a-şi impune voinţa sa altui actor politic. Secretarul de Stat al Administrației Americane în timpul președintelui Richard Nixon și Gerald Ford, Henry Kissinger, numeşte puterea drept „capacitatea unei entităţi de a-şi impune voinţa asupra alteia sau de a rezista presiunii exercitate de altă entitate”. [11] Rămâne de văzut dacă Ucraina va rezista presiunilor diplomatice și politice exercitate din Vest și în același timp celor economice și militare din Est sau se va prăbuși. Este evident că zona de instabilitate, vizată de cele două mari puteri, este un măr al discordiei globale ce alimentează insecuritatea Europei de Est și a întregului continent.

Referințe bibliografice
[1] Anthony, Giddens, Runaway World: How Globalization Is Reshaping Our
Lives, Profile Books, London, 1999, p.10.
[2] Samuel, P. Huntington, 1997, THE CLASH OF CIVILIZATIONS THE REMAKING OF WORLD ORDER, Simon & Schuster.
[3] Dan, Dungaciu, America la ora opțiunilor majore : dominație sau conducere globală ?, Revista Politica nr.45 din 16 dec.2004.
[4] Patrick, Stewart, Weak States and Global Threats: Fact or Fiction?, în „The Washington Quarterly”, No. 29:2, Spring 2006, p. 27-53.
[5] Robert I., Rotberg, Nation-State Failure: A Recurring Phenomenon?, NIC 2020 Project, 2003, p.3-4.
[6] Robert I., Rotberg, When States Fail: Causes and Consequences, Princeton University Press, 2003, p. 5.
[7] William, Zartman, Collapsed States: The Disintegration and Restoration of Legitimate Authority, Boulder, Lynne Rienner,1995.
[8] Francis, Fukuyama, Construcţia statelor. Ordinea mondială în secolul XXI, Editura Antet, Bucureşti, 2004, p.6.
[9] Daniel, Kaufmann ; Kraay, Aart ; Mastruzzi, Massimo, Governance Matters Aggregate and Individual Governance Indicators 1996-2008, The Development Research Group Macroeconomics and Growth Team & World Bank Institute Global Governance Program, 2009.
[10] Alexandra, Sarcinschi, Rolul actorilor statali în configurarea mediului internațional de securitate, Editura UNAp., București,2010, p.12-17.
[11] Henry, Kissinger, Problems of National Strategy, A book of Readings, Ed.V, 1971, p. 3.

UNA GEOPOLITICA FLUVIALE

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Il fiume è coessenziale ad una interpretazione della storia europea secondo una visione “di terra”, contrapposta ad una percezione marittima. Si vogliono evidenziare solo interpretazioni dell’elemento fluviale a partire dal Medioevo in quanto da lì emergono i significati geopolitici di fiume ricorrenti anche nei secoli successivi. Per ragioni di spazio, ma con riserva di approfondimento, in questa sede non affrontiamo la storia dei significati assunti dall’elemento fluviale negli altri Grandi Spazi diverso da quello europeo, né i profili sociali che la costruzione di una civiltà reca con sé.
La Terra è Madre del diritto, poiché essa reca in sé sempre una misura interna di giustizia per il lavoro di dissodamento e coltivazione svolto entro linee precise di suddivisione del suolo che, unitamente ad altre, danno una chiara percezione dell’ordine costituito: l’occupazione della terra costituisce il titolo radicale, l’archetipo di un processo giuridico costitutivo che immediatamente ci permette di differenziare la posizione nostra verso l’esterno, nei confronti di altri popoli, ed all’interno in relazione alle altre linee in cui la proprietà del suolo è suddivisa. Ebbene, col termine nomos Schmitt definisce “la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo … l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva. ..Nomos è la misura che distribuisce il terreno ed il suolo della terra..” .
La Madre Terra può dare frutti se, oltre all’energia dell’uomo, vi sia la risorsa principale costituita dall’acqua, e qui si introduce la prospettiva fluviale che rende evidente, anche se talvolta data per scontata, l’idea del Nomos sopra descritta. L’ Impero Romano reca con sé una concezione universalistica e sovranazionale rivolta ad uno spazio territoriale che diviene concreto solo se rapportato all’altrettanto decisiva presenza dell’elemento fluviale che lo delimita. Lo spazio continentale europeo si costituisce su un tripartito regime fluviale: il Rodano, che si getta nel bacino occidentale del Mediterraneo e unisce quest’ultimo al centro nevralgico dell’Europa centrale, via Ginevra, il corso della Saône e del Doubs, che lo conduce alle «Porte di Borgogna» (Burgundische Pforte), cioè al varco di Bâle o di Belfort, in prossimità del Reno e non lontano dalle sorgenti del Danubio.
Già I Romani erano coscienti del fatto che un’unità politico territoriale del loro Impero non potesse prescindere dal governo di questi tre grandi regimi fluviali (Rodano, Reno e Danubio) rispetto ai quali vanno considerati gli inserimenti delle popolazioni barbariche all’interno dell’Impero (il fiume come confine). Alcune occupazioni territoriali – come quelle di Ostrogoti e Burgundi si svolsero nel rispetto dell’ordinamento spaziale romano, dato che le tribù nomadi si fecero assegnare terra dall’Imperatore medesimo; altre occupazioni invece avvennero senza alcun riguardo per le situazioni precedenti: è il caso dei Longobardi in Italia, a partire dal VI secolo, che abolirono le situazioni giuridiche precedenti acquisendo in modo violento la proprietà altrui conferendola nelle “sale” e ripartendola fra l’aristocrazia guerriera distinta poi per ducati ed arimannie. Essi comunque ebbero ben presente l’importanza del fiume Ticino ponendo a Pavia (Ticinium) la loro capitale, poiché, risalendo il Po, si aveva il controllo dell’intera pianura padana: i mercanti di Comacchio dall’VIII secolo risalivano il Po per arrivare a Pavia vendendo sale, olio e spezie di provenienza orientale e comprando grano per le regioni costiere (il fiume come via di comunicazione). A partire dalla dissoluzione dell’impero carolingio, si pone il problema di mantenere il riferimento all’antica localizzazione territoriale dell’Impero Romano: nel Medioevo avanza la lotta per Roma e non contro Roma. La Chiesa si assume la gravosa responsabilità di impedire la dissoluzione di un intero mondo, di trattenerlo – da qui il concetto di katechon – di fronte all’avanzare dell’Anticristo, o, detto, altrimenti la dissoluzione completa dell’Occidente.
Il recupero delle popolazioni slave dislocate fra l’Elba e l’Oder avvenne avvalendosi di armi, diplomazie e predicazione religiosa (il fiume come riferimento di unità religiosa latino germanica) oscillando queste popolazioni tra il miraggio di Costantinopoli e il timore di entrare in un’organizzazione che potesse ridurre la loro autonomia politica: Ottone I riuscì a sottomettere dapprima la Boemia, poi la Moravia ed infine, fatto decisivo, gli Ungari dopo averli sconfitti militarmente nel 955 a Lechfeld – in prossimità del fiume Lech (il fiume come teatro di scontro bellico). Nel Continente i secoli dal XII al XV sono ad appannaggio delle repubbliche marinare veneziane e genovesi e delle città come Firenze (situata sull’Arno): esse riescono ad acquisire uno strapotere commerciale facendo rete fra commercio marittimo, arterie fluviali interne dell’entroterra e vie stradali in grado di collegare i centri- specie del Nord Italia- col Nord della Francia e con le Fiandre. Un esempio di questa perfetta integrazione è data appunto dal fiume Ticino che permette, risalendo da Est di proseguire verso la Germania utilizzando per lunghi tratti la navigazione fluviale e lacuale sul Lago Maggiore per giungere poi in territorio elvetico servendosi del passo del Gottardo.
Superata la carestia del 1348 e le altre crisi del XV secolo, il continente europeo riprende lentamente a ripopolarsi e soprattutto a vedere l’introduzione di nuovi prodotti agricoli – come riso e mais – che, a differenza del grano- presenteranno una resa maggiore ed una possibilità ulteriore di vendere eccedenze alimentari sul mercato: nelle agricolture più evolute, si afferma il sistema irriguo grazie anche ad una forte infrastrutturazione di canali che spesso porta comunità – è il caso di Milano con Pavia – a scontrarsi per la deviazione dei corsi fluviali (il fiume come risorsa per l’agricoltura)
Dal XVII secolo comunque all’elemento Terra comincerà a contrapporsi il Mare che ridefinirà completamente i precedenti modi di intendere la statualità ma lo stesso presupposto di Grande Spazio: ha inizio l’ascesa dell’Inghilterra che ripensa sé stessa, la propria politica e la e propria identità a partire dal Mare dove ovviamente, non esistendo linee di confine, è possibile osare tattiche e metodi impensabili sulla terraferma: il vocabolo – coi relativi attacchi a vascelli ed imbarcazioni spagnole- deriva dal greco peirao che significa appunto tentare, osare. Avuta completamente la meglio sugli Olandesi – un popolo grandissimo che comunque, al momento decisivo dopo la pace di Utrecht del 1713, si volse a quella terraferma per recuperare la quale tanto aveva lottato contro il Mare- gli Inglesi, già in precedenza sbarazzatisi della potenza spagnola, rimasero incontrastati padroni delle vie oceaniche. All’interno del suo territorio insulare, l’Inghilterra si attivò enormemente affinché bacini fluviali- il Tamigi, il Severn, il Trent, l’Humber – venissero potenziati con opportuni lavori che ne migliorassero la navigabilità; nel continente la strategia diplomatica perseguita fu opposta sempre per rendere più oneroso il trasporto via terra di merci e granaglie (il fiume come baricentro di strategia geopolitica) e, soprattutto, impedire di pensarsi come Grande Spazio continentale: solo così si riesce a comprendere l’ossessione britannica di invocare il superiore principio della libertà dei mari e dei commerci, mantenendo libere tutte quelle vie di comunicazione sul mare (Stretto di Gibilterra, Canale di Suez) che consentono il collegamento dell’area atlantica verso quella indiana; ed in quest’ottica si comprende l’ossessione britannica di tenere lontana la flotta russa dal Mediterraneo e dal Mar Nero per impedire la costituzione di qualsiasi rete con l’arteria danubiana e gli altri bacini fluviali interni al territorio russo.
Ad Est l’arteria danubiana rimarrà sempre quella decisiva dato che gli Ottomani dal XVI secolo tenteranno, dal Mar Nero, di risalire la foce per spingersi fino a ridosso di Vienna: le vittorie di Eugenio di Savoia a Timisoara, lungo il fiume Timis, a Belgrado sul Danubio e a Zenta nel 1697 sono fondamentali per il mantenimento della civiltà occidentale (il fiume come elemento divisivo di due civiltà).
E’ davvero superata questa visione? Sembra proprio di no, dato che il disegno strategico di bloccare l’arteria danubiana era già perseguito da Gran Bretagna e Stati Uniti non solo all’epoca del Trattato di Versailles, ma ancora, per parte americana, all’epoca della guerra in Kossovo col bombardamento del ponte danubiano su Novi Sad. Né può dirsi un caso che la Crimea sia stata oggetto di interesse immediato per parte russa- dato che è la parte di territorio ucraino in cui sfocia il Danubio – e come per gli USA sia indispensabile stressare l’intera area che dal Baltico arriva al Mar Nero (l’antica linea dai Variaghi ai Greci).
Personalmente sono convinto che la risorsa fluviale sia importante non solo da un punto di vista culturale (il fiume come memoria del patrimonio culturale e naturale europeo) ma anche economico attraverso opere di grandi infrastrutturazione che rendano collegabili il bacino renano con quelli dei grandi corsi russi (il fiume come infrastruttura economica- ) – come grande volano per la crescita e l’occupazione- favorendo al contempo il potenziamento delle aggregazioni territoriali in dimensioni macro-regionali (il fiume come perno di riorganizzazione territoriale) che permettano sempre più, nel rispetto delle proprie identità e della propria storia, il recupero della dimensione di Grande Spazio Europeo l’unica che possa consentirci un confronto con quelli russi, cinesi e sudamericani in termini di confronto di civiltà. Come annunciato in premessa, non ci si può dilungare oltre nel raffronto con i Grandi Spazi russi, cinesi e sudamericani sebbene si possa dire che là il problema della regolazione delle acque di grandissimi corsi fluviali abbia spinto verso un’organizzazione amministrativa di tipo imperiale, fortemente accentrata con un impatto particolare nelle modalità di esazione fiscale, secondo un’impostazione differente da quella europea che conobbe la figura dello Stato a partire dal XVI secolo : è comunque anch’essa una materia meritevole di essere rappresentata secondo una prospettiva turistico culturale che espliciti i prezzi demografici, sociali, sanitari, alimentari che in termini di sofferenza, lotta e scontro una civiltà paga per emergere: il fiume, nel Grande Spazio Europeo costituisce la Memoria della nostra civiltà occidentale continentale, l’unica che abbia la dignità e la statura per confrontarsi con le altre sopra ricordate.

NOTE
(1) C. Schmitt Il Nomos della Terra – Milano 1991
(2) C. Schmitt Il Nomos

L’ISIS, DI BATTISTA E LA GUERRA AL TERRORISMO: COMMENTO GEOPOLITICO DI UNA CONTRADDIZIONE

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L’uscita, in parte provocatoria, del deputato grillino Alessandro Di Battista arriva in un momento importante nella vita politica italiana, alle prese con numerose criticità e alla vigilia della convocazione delle Commissioni Esteri e Difesa del Parlamento per decidere l’invio di armi ai curdi iracheni.
Le recenti crisi internazionali, dalla guerra di Gaza a quella in Ucraina, hanno contribuito – dopo parecchi anni e seppur per motivi diversi – a stabilire un nesso tra avvenimenti esterni e loro conseguenze sul piano interno, ma la questione dell’avanzata dell’Isis in Iraq ha aumentato notevolmente la tensione in un’Italia già scossa dai possibili contraccolpi di un’immigrazione straniera ormai fuori controllo.
Le parole dell’On. Di Battista, opportunamente evidenziate da alcune agenzie (1), hanno quantomeno riaperto il dibattito su alcuni temi che sembravano ormai destinati a sparire dal dibattito politico nazionale, seppure appaiono venate da alcune ingenuità che – sapientemente gonfiate dai mass media – rischiano di inficiarne l’assunto generale.
Sbaglia infatti Di Battista quando utilizza l’esempio dell’ISIS per legare il movimento qaedista ai gruppi rivoluzionari arabi che da decenni cercano di ottenere l’indipendenza in un contesto regionale fortemente caratterizzato dal neocolonialismo occidentale (dai numerosi colpi di Stato della CIA – giustamente ricordati nel suo discorso – alla creazione di Israele, alle basi militari USA, alle guerre dirette ed indirette volute dalle varie multinazionali …).
Se avesse davvero voluto mettere nel sacco la leadership nordamericana, confortando la sua opinione secondo la quale ”Gli USA non ne hanno azzeccata una in Medio Oriente …”, Di Battista avrebbe dovuto sottolineare l’incoerenza della presunta “guerra al terrorismo” condotta da Washington e non la sua inefficacia (perché i suoi obiettivi strategici sono ben altri …).
Avrebbe ad esempio potuto dire che per oltre due settimane, durante l’avanzata dell’ISIS, gli USA non abbiano mosso un dito se non per difendere la propria Ambasciata a Baghdad, mentre la Russia e l’Iran fornivano aiuti militari al legittimo Governo iracheno.
Avrebbe potuto sottolineare che l’avanzata dell’ISIS era infatti funzionale al disegno statunitense di rientrare con forza in Iraq mettendo fine al Governo di Al Maliki, troppo vicino a Teheran, così come in effetti è poi accaduto … (2).
Avrebbe potuto rilevare che, ben lungi dal sostenerne il Governo centrale, gli USA stiano ora aiutando soltanto i separatisti curdi, funzionali al disegno di divisione dell’Iraq e quindi ad una sua ulteriore destabilizzazione.
Soprattutto Di Battista avrebbe dovuto chiarire come l’ISIS sia stato sostenuto per anni dai principali alleati mediorientali degli Stati Uniti e di Israele (che ne hanno addestrato gli effettivi in Giordania): Turchia, Arabia Saudita e Qatar contro il Governo siriano di Bashar Al Assad.
Il deputato di Cinque Stelle avrebbe potuto notare la strana coincidenza tra la recente decisione di Obama di riarmare i ribelli siriani e la nuova avanzata dell’ISIS in Siria ed Iraq, oscurata dai media finché Washington non ha deciso di bombardarne alcune postazioni, come se i massacri dei cristiani in Medio Oriente avvengano soltanto ora …
In particolare Di Battista avrebbe potuto sottolineare come gli Stati Uniti possiedano numerosi mezzi di pressione, militari e finanziari, nei confronti dei paesi che armano e pagano l’ISIS, in quanto tutti suoi alleati storici …
Spiegando questa curiosa incongruenza della politica estera nordamericana, ormai talmente palese da essere ammessa anche dai commentatori della geopolitica “ufficiale” (3), si sarebbe finalmente evidenziato che la “guerra al terrorismo” intrapresa dopo l’11 settembre 2001 non è altro che una guerra indiretta ma veemente condotta dagli USA e dai suoi alleati contro le principali nazioni eurasiatiche per il controllo economico e finanziario delle risorse del pianeta, ad evidente danno degli stessi popoli europei.
Il voler equiparare l’ISIS – un’organizzazione militare spietata, affatto endogena (viste le provenienze cecene, pakistane …), ben finanziata ed addestrata dai servizi segreti delle principali potenze occidentali e da quelli delle petromonarchie del Golfo Persico – ad un’OLP o ad un’ETA qualunque con le quali poter trattare, ha così sviato l’attenzione dal problema reale facendoci perdere un’ interessante occasione di dibattito.
Un problema reale, perché come riportato in un’altra parte dell’intervento dell’On. Di Battista (“Essere alleati degli USA non significa essere sudditi”), riguarda innanzitutto la sovranità politica ed economica dell’Italia e il controllo militare del proprio territorio, due parametri senza i quali l’esistenza stessa del “nostro” Paese può considerata ormai a rischio.
Ci si augura perciò che l’importante dibattito sulla questione irachena nelle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato non si traduca in un’inutile rissa tra fazioni politiche prigioniere di un’ideologia che non esiste più ma che rappresenti un’utile occasione per chiarire una volta per tutte quale sia il nostro tanto citato “interesse nazionale”: prendendo magari le opportune misure per realizzarlo.

Note
1) L’intervento integrale di Alessandro Di Battista è stato ripreso da Agenzia Stampa Italia: http://www.agenziastampaitalia.it/politica/politica-estera/21564-isis-che-fare-leggete-l-analisi-completa-di-di-battista-m5s
2) http://www.eurasia-rivista.org/stefano-vernole-e-alireza-jalali-allirib-usa-e-gb-usano-terroristi-isis-per-costringere-al-maliki-alle-dimissioni/21744/
3) Il direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo, ha recentemente definito l’11 settembre 2001 “Attacco saudita all’America vestito da follia terroristica”, in Limes, “Brasiliana”, 6 giugno 2014, p. 15.

Stefano Vernole è Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici.


LA GRANDE SCACCHIERA SECONDO BRZEZINSKI

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Il 21 luglio scorso, ossia quattro giorni dopo che era stato abbattuto il Boeing 777 della Malaysia Airlines mentre sorvolava l’Ucraina orientale a circa 50 km dal confine con Russia, Foreign Policy pubblicava un’intervista a Zbigniew Brzezinski da parte di David Rothkopf (1). Il “grande vecchio” della geopolitica statunitense, il cui ultimo importante lavoro, Strategic Vision. America and the Crisis of Global Power, è stato pubblicato solo due anni fa, (2) non si smentisce e la sua analisi degli affari internazionali è come al solito caratterizzata da uno stile di pensiero netto e chiaro, benché si debba cogliere anche e soprattutto il senso di quel che egli “esprime tra le righe”.
Brzezinski è perfettamente consapevole dei limiti della potenza americana e ritiene che gli Stati Uniti si siano lasciati coinvolgere nel labirinto medio-orientale senza ottenere alcun vantaggio, mentre si è destabilizzata l’intera regione. Il che è tanto più grave in quanto attualmente non vi è più un sistema internazionale in grado di garantire un “nuovo ordine mondiale”. Ne consegue, a giudizio di Brzezinski che, sebbene non stiamo scivolando verso un’altra guerra mondiale, rischiamo di andare verso un’era di grande confusione e caos.
Brzezinski riconosce esplicitamente anche che l’America ha sbagliato ad eliminare Saddam e a lasciare troppo spazio alle petromonarchie del Golfo, senza nemmeno impegnarsi a fondo né in Libia né in Siria. Per mettere fine ai conflitti che stanno devastando e insanguinando l’intera regione medio-orientale e che vedono prevalere gruppi di terroristi islamisti (ma Brzezinski sa benissimo da chi sono finanziati e armati), occorrerebbe quindi puntare sull’Iran, nonostante la prevedibile opposizione di Israele. Ma per Brzezinski Israele è al sicuro con le sue 150-200 testate atomiche, mentre l’Iran anche se riuscisse a fabbricare un ordigno nucleare non sarebbe così folle da “suicidarsi” lanciandolo contro Israele.
Al riguardo, Brzezinski, che si dichiara favorevole pure alla creazione di uno Stato palestinese, è chiarissimo, arrivando ad affermare: “I can envisage a nuclear-armed Israel and a nuclear-armed Iran being a source of stability in the region” (una concezione condivisa anche da Martin van Creveld il noto analista militare israeliano, pure lui decisamente contrario all’invasione dell’Iraq nel 2003). In effetti, Brzezinski ritiene che gli Usa dovrebbero prendere l’iniziativa per edificare un nuovo ordine mondiale di tipo multipolare, dacché è evidente che la sovraesposizione imperiale del grande Paese nordamericano per Brzezinski è un pericolo che Washington non deve più correre, i tempi non essendo maturi per un nuovo unipolarismo statunitense.
In questa prospettiva, l’alleanza degli Stati Uniti con la Cina sarebbe, a suo avviso, la chiave geostrategica per arrivare a ridisegnare la mappa geopolitica dell’intero pianeta in modo tale da garantire maggiore maggiore sicurezza e maggiore stabilità negli affari internazionali. Nella sostanza, la Cina dovrebbe avere un ruolo egemone in Asia, pur dovendo lasciare un certo “spazio geopolitico” al Giappone e all’India, mentre gli Usa dovrebbero di fatto dominare incontrastati in Europa, contando sull’appoggio dei circoli atlantisti europei, e in America Latina, anche se secondo Brzezinski si dovrebbero migliorare le relazioni bilaterali tra gli Usa e i Paesi del continente americano (che pensi in particolare al Brasile ci pare ovvio).
Tuttavia, anche in questa intervista si rivela chiaramente la russofobia dello studioso di origine polacca, il quale considera la Russia responsabile della grave crisi ucraina, senza dire nulla sul fatto che a Kiev c’è stato un golpe appoggiato dalla Nato, né sul fatto che, di conseguenza, la stragrande maggioranza della popolazione della Crimea ha voluto riunirsi alla Russia. E neppure ovviamente dice nulla su quanto sta accadendo in questi ultimi mesi in Ucraina orientale, ove la popolazione locale combatte una disperata battaglia contro i golpisti filo-occidentali di Kiev, tra i quali vi sono pure bande armate di neonazisti, che agiscono come “utili idioti” della Nato.
Eppure, tali “omissioni” non dipendono solo da pregiudizi antirussi. Apparentemente per Brzezinski la Russia è un Paese relativamente debole, che può tutt’al più svolgere un ruolo geopolitico a livello regionale, e in questo senso, ammette che la funzione della Russia può anche essere utile. Ma quel che in realtà si deve tenere presente è che la stessa idea di riconoscere alla Cina una posizione mondiale di primo piano, non la si comprende appieno se non la si mette in relazione con il fatto che i Brics costituiscono ormai un “potenziale “polo geopolitico” in grado di contrastare quello atlantico, dominato dagli Usa. Il fatto stesso che il rapporto tra Cina e Russia si vada rafforzando mette in discussione l’egemonia degli Usa. Questo Brzezinski lo sa meglio di chiunque altro. Come sa che l’Ucraina è di importanza decisiva per la sicurezza nazionale e il ruolo internazionale della Russia.
Infatti, è stato proprio Brzezinski a scrivere che senza l’Ucraina la Russia non può essere un attore geopolitico a livello globale, ma potrebbe solo essere solo un “predominantly Asian imperial state” (3). Ma oggi, con l’eccezionale crescita della Cina e quella (assai minore di quella cinese ma pur significativa) dell’India anche questo ruolo non sarebbe possibile per la Russia, una volta privata della Crimea e della sua sfera d’influenza in Europa. Limitare drasticamente quindi il ruolo geopolitico della Russia è la ragione fondamentale dell’ingerenza degli Usa negli affari interni dell’Ucraina e del tentativo di portare questo Paese nell’orbita della Nato e della Ue, ossia degli Usa (cui naturalmente .piacerebbe che in Russia accadesse quanto è accaduto in Ucraina).
In questa prospettiva, l’argomentazione di Brzezinski è assai più chiara, dacché è logico che la politica di una superpotenza come gli Usa (stendiamo pure un “velo pietoso”, come si suol dire, sulla questione della democrazia e della pace made in Usa) non può dipendere dalla politica di potenza israeliana o dalle ambizioni e dagli interessi regionali dell’Arabia Saudita e del Qatar, mentre è pacifico che la sicurezza nazionale sia di Israele che delle petromonarchie del Golfo dipenda dalla politica di potenza americana. Nondimeno, è assai difficile ritenere che questi attori regionali siano pronti a dar vita ad un nuovo corso geopolitico che veda l’Iran diventare una potenza nucleare e addirittura garante di equilibri geostrategici funzionali alla politica statunitense, in un’area che gli stessi Stati Uniti hanno contribuito a trasformare in un lago di sangue e in cui scorrazzano bande armate islamiste d’ogni genere.
Né è convincente paragonare le relazioni tra Roma e Bisanzio a quelle che dovrebbero intercorrere tra Cina e Usa in un prossimo futuro, benché spiegare l’attuale fase storica riferendosi alle guerre di religione in Europa nel XVII secolo, che portarono alla nascita di un sistema politico continentale fondato sugli Stati nazionali europei, sia (se non condivisibile) perlomeno comprensibile, giacché è naturale che le relazioni internazionali non possono essere fondate su una geopolitica del caos. (Degno di nota è pure che Brzezinski consideri un fattore di forza lo Stato nazione e che perciò ritenga necessario fondare un nuovo ordine mondiale su due potenti Stati nazione, nonostante tutte le ciance sulla fine degli Stati nazione predatori).
Una tale situazione di caos, in effetti, a lungo andare non può non avere conseguenze negative per la potenza capitalistica predominante, anche sotto il profilo economico, mentre l’economia internazionale è sempre più caratterizzata dal dinamismo dei Brics e dalle difficoltà della “vecchia Europa”, non a caso “liquidata” da Brzezinski, che pur non ne sottovaluta l’importanza, come un problema che l’America può e deve risolvere mediante accordi commerciali. Ovverosia mediante il Tafta, il noto Transatlantic Free Trade Act, che segnerebbe il definitivo tramonto dell’indipendenza dell’Europa, mettendo i singoli Stati del Vecchio Continente sotto la tutela dei “mercati” English speaking.
Al riguardo è significativo pure che Brzezinski in questa intervista non prenda in considerazione gli effetti della crisi economica sull’Ue né la questione del rapporto tra la Germania e i Paesi deboli dell’Europa meridionale, ma si limiti ad evidenziare la debolezza geopolitica dell’Ue (benché nella sua opera più recente sottolinei i forti legami commerciali con la Russia che caratterizzano l’economia della Germania e quella dell’Italia). Ma la debolezza dell’Europa, su cui non ci piove, potrebbe rivelarsi un fattore di grave instabilità per gli stessi Usa, giacché, nel caso che i Brics diventassero un vero “blocco geopolitico”, ciò non potrebbe non influire sui delicati e fragili equilibri economici e politici dell’Ue, in specie su quelli dell’Eurozona già sottoposti a tensioni fortissime.
In sostanza, quindi per Brzezinski il vero scopo degli Usa dovrebbe essere quello di evitare che si costituisca un potente polo geopolitico in Eurasia, dacché “una potenza che domini l’Eurasia eserciterebbe un’influenza decisiva su due delle tre regioni economicamente più produttive al mondo: Europa occidentale e Asia orientale. Uno sguardo alla mappa suggerisce anche che un Paese dominante in Eurasia quasi automaticamente controllerebbe Medio Oriente e Africa”. (4)
Perché ciò non accada, gli Usa dovrebbero “sfilare” la Cina (almeno di fatto, se non formalmente) dai Brics, impedire che si formi un asse geostrategico Mosca-Pechino, trasformare il Medio e Vicino Oriente in un’oasi di pace – facendo leva sui buoni rapporti (tutti da costruire) tra Iran e Israele da un lato, e tra Iran e Arabia Saudita (nonché tra Israele e palestinesi) dall’altro -, mantenere il controllo dell’intero continente americano usando più la carota che il bastone, e saldare all’Atlantico un’Europa sempre più debole e stretta nella morsa di una crisi economica, le cui cause non sono certo solo di natura economica.
Qualcuno potrebbe pensare che sia più facile risolvere il problema della quadratura del cerchio. Eppure, Brzezinski non è affatto un visionario. Si deve tener conto infatti che in primo luogo l’uditorio cui egli si rivolge è costituito dai membri del gruppo dominante americano, in cui la “pressione” per un intervento contro l’Iran è pur sempre forte, mentre Brzezinski è convinto non solo che si possa ottenere parecchio lasciando che l’Iran sviluppi il suo programma nucleare pacifico, ma soprattutto che “raffreddare” la situazione in Medio Oriente a questo punto convenga a tutti.
Per quanto concerne i Brics, invece è evidente che la parte del leone la fa la Cina, la cui quota della manifattura mondiale è salita dall’8,3% nel 2000 al 30,3% nel 2013, mentre quella degli Usa nello stesso periodo è calata dal 24,5% al 14,3% (5). Ragion per cui è imperativo per gli Usa trovare un accordo con la Cina. Inoltre, è abbastanza chiaro che Brzezinski più che a un multipolarismo pensa ad un bipolarismo che lasci spazio a dei “poli geopolitici” regionali,tanto che ritiene che “we are moving into a world of a G-2 plus”.(6).
Non solo però, come si è già rilevato, è ben difficile che gli Usa possano convincere i loro stessi alleati ad accettare una ridefinizione così drastica della mappa geopolitica in Medio Oriente a breve termine, ma non è nemmeno facile che la Cina si comporti come si augura Brzezinski, dacché in gioco vi è un sistema geopolitico, finanziario ed economico che è ancora completamente “egemonizzato” dagli Usa e in generale da quella che si può definire l’élite occidentale del potere. Ma vi è pure la questione della Russia, che dovrebbe subire passivamente l’iniziativa strategica degli Usa. Il che francamente sembra assai improbabile, anche se Brzezinski ritiene che l’ingesso dell’Ucraina nell’Ue e l’espansione della Nato verso est potrebbero indurre Mosca a rassegnarsi ad avere un ruolo di carattere subalterno rispetto a quello degli Usa e della Cina.
Invero, per Brzezinski il nemico “numero uno” degli Usa è ancora la Russia (non a caso giunge addirittura a criticare l’Europa rea, a suo avviso, di non aver preso una posizione dura nei confronti della Russia sulla questione ucraina). Il motivo è semplice. Secondo il “nostro” la Cina è essenzialmente una potenza asiatica, nonostante i suoi interessi commerciali siano ormai globali. La Russia invece è una potenza eurasiatica, ancora in grado di influenzare la politica e la cultura europea. Ed è pure un partner economico di primaria importanza per molti Paesi europei, oltre a disporre di uno spazio immenso e ricchissimo di materie prime. E’ naturale dunque che per Brzezinski gli Usa debbano puntare sulla Cina per mettere la Russia in un angolo, costruire una “barriera” che divida l’Europa dalla Russia di Putin e cercare di togliere il “pungiglione militare” ai Brics.
Certo la Cina potrebbe diventare una superpotenza militare e sfidare gli Usa anche senza un’alleanza militare con la Russia. Del resto, la crescita militare della Cina è già in atto, ma appunto per questo è necessario per gli Usa giungere ad un compromesso con i cinesi, che pure devono ancora risolvere parecchi problemi di politica interna. Ciononostante, solo integrando i gruppi dominanti cinesi nella élite del potere occidentale, sarebbe possibile un sistema “G2 plus” come si augura Brzezinski. Ma anche ammesso che ciò non sia una sorta di wishful thinking, ci vorrebbero anni per costruirlo, mentre è la stessa politica di “pre-potenza” dell’America e dei suoi principali alleati che continua a creare caos e instabilità non solo nel Medio Oriente.
Peraltro, anche la vicenda ucraina, che Brzezinski tratta non solo superficialmente ma con arroganza e distorcendo completamente la verità dei fatti, è indice che gli Usa sono tutt’altro che disposti a “mollare la presa” sia sul Vecchio Continente che sulla fascia costiera dell’Eurasia. Comunque sia, non c’è prova migliore che l’America sia in difficoltà del fatto che il “nostro” ammetta che “we are losing control of our ability at the highest levels of dealing with challenges that, increasingly, many of us recognize are fundamental to our well-being”. (7) E su questo si può essere tutti d’accordo.
Contrariamente però a quanto sostiene Brzezinski, nessun equilibrio internazionale (né alcuna nuova Bretton Woods) sarà possibile fino a quando gli Usa non rinunceranno ad una politica che ha come autentico scopo l’egemonia globale. D’altronde, com’è noto gli Usa non hanno alleati permanenti, ma solo obiettivi permanenti. E questo, com’è ovvio, lo sanno pure i cinesi. E’ quindi alla luce di tali obiettivi e interessi che si devono valutare le parole di Brzezinski. Certo è che nei prossimi anni la situazione internazionale diverrà ancora più fluida e instabile, con improvvisi mutamenti di fronte e rovesciamenti di alleanze, tanto che è lecito ritenere i Paesi che non ne sapranno approfittare per rafforzare la propria sovranità e ampliare la propria sfera d’azione geopolitica, rischieranno di scivolare verso la periferia del “sistema mondo”. E che ciò si stia già verificando per quanto concerne l’Italia, un Paese del tutto subalterno alle logiche di potere d’oltreoceano, non dovrebbe sorprendere nessuno.

NOTE
1. A Time of Unprecedented Instability? (http: // www. Foreign policy. com/articles /2014/07/21/ a_time_of_unprecedented_instability_a_conversation_with_zbigniew_brzezinski%20).
2. Z. Brzezinski, Strategic Vision. America and the Crisis of Global Power, Basic Books, New York, 2013.
3 Z. Brzezinski, The Grand Chessboard, Basic Bokks, New York, 1997, p. 46.
4. Così scriveva lo stesso Brzezinski in un articolo per Foreign Affairs del settembre/ottobre 19 (vedi F. W. Engdahl, L’odierna posizione geopolitica degli Usa, “Eurasia”, n. 3, 2010, p. 62.).
5. “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
6. Vedi A Time of Unprecedented Instability?, cit.
7 Ibidem.

Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità”

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Enrica Perucchietti, Gianluca Marletta, Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità”, Arianna Editrice, Bologna 2014.

Scopo del presente libro è quello di avvertire il lettore del pericolo che incombe su tutti coloro che sono sottoposti alla propaganda, palese ed occulta, della cosiddetta “ideologia di genere”.
Tale ideologia, di cui ci siamo già occupati sul fascicolo 2/2014 di questa stessa rivista dedicato a “La seconda Guerra fredda”, sotto il manto rassicurante del “rispetto” e della “libertà” mira a La creazione dell’uomo “senza identità”, come recita il sottotitolo di Unisex, di Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta (Arianna Edizioni, Bologna 2014).
I lettori di una rivista di geopolitica, e a maggior ragione gli addetti ai lavori, non devono sottovalutare il peso del fattore ideologico nella competizione tra grandi potenze. Se infatti è chiaro a chiunque il ruolo svolto dalle ideologie otto-novecentesche come strumento per rinforzare il consenso interno e cooptare simpatie presso società nemiche da indebolire e sovvertire, forse non è altrettanto evidente come l’ideologia “gender” si situi in un consolidato e nutrito filone, pur tuttavia con delle sue peculiarità in linea con lo “spirito dei tempi”.
Essa non si limita per l’appunto a fornire una mera arma propagandistica, ma viene utilizzata in maniera martellante contro le stesse popolazioni da cui sono emersi i teorici di questa visione del mondo a rovescio, e successivamente contro quelle conquistate, per uno scopo mai dichiarato prima con siffatta spregiudicatezza: la manipolazione dell’uomo ad un punto tale da mandarlo in confusione persino sul piano delle sue basi biologiche.
Come tutte le astruserie non basate sulla realtà immodificabile della Natura, si è di fronte – come riconoscono gli stessi autori – ad un tassello importante verso il tentativo di edificare la “Grande utopia”, cioè il cosiddetto “Nuovo Ordine Mondiale”. Che di per sé non si significherebbe molto, senonché, alla luce della teoria e della prassi degli “ideologi del genere”, si può affermare con cognizione di causa che l’obiettivo principe di tale “ordine” è “l’uomo nuovo”, completamente a-morfo (cap. 1).
Si potrebbe a ragione individuare nel “rivoluzionarismo”, nel desiderio di sovvertire l’ordine naturale delle cose, l’humus da cui trae origine questa propaganda che inonda in prima istanza le popolazioni occidentali con i “diritti dei gay”, il “pansessualismo” ed altre assurdità che in epoche normali non sarebbero mai uscite dal recinto di chi era dedito al vizio e alla perdizione.
Ma quelle erano epoche nelle quali la religione non era uno strumento consolatorio ad uso e consumo della gestione di “crisi umanitarie”. Il che spiega l’odio esplicito dei teorici “gender” verso tutte le “false religioni” e l’impegno profuso nella diffusione di un clima atto a far recepire una “Nuova Era” (della “tolleranza”, dell’amore universale” ecc.).
Partendo da quest’assunto (senza peraltro approfondire la portata distruttiva dell’odio antireligioso insito nella “ideologia di genere”), gli autori – che per onestà intellettuale si premurano d’informare che essi non ce l’hanno con gli omosessuali, limitandosi invece a studiare il pensiero e l’azione degli “omosessualisti”, ovvero degli omosessuali militanti – proseguono la loro disamina con una breve storia di questa corrente di pensiero (cap. 2), le cui radici non vanno disgiunte da quelle che hanno prodotto, tra le altre, la mala pianta della “droga libera”.
In prima fila, a sovvenzionare “scienziati” e “centri studi” (ci occuperemo in seguito dell’Istituto Tavistock, oggetto di uno studio di Daniel Estulin tradotto sempre per Arianna Editrice), troviamo i veri potenti del capitalismo occidentale, organizzati in “fondazioni” che, assieme all’Onu, svolgono un ruolo capillare nella persuasione delle masse, progressivamente conquistate – quando non sono sorrette da una visione del mondo saldamente tradizionale – a questo nuovo paradigma che mette in discussione le basi stesse dell’essere umano, della famiglia e della comunità.
Ideologia “gender” ed omosessualismo (cap. 3) sono strettamente correlati, ed è interessante notare come una certa “antipsichiatria” (per altri versi giusta e sacrosanta tanto è misera la concezione dell’uomo dei moderni “strizzacervelli”) abbia avuto in vista lo sdoganamento dell’omosessualità quale “orientamento sessuale” al pari di quello cosiddetto “etero”.
Una volta fatto accettare un disturbo come normale, attraverso tre momenti distinti ma sovrapponibili (“desensibilizzazione” fino all’assuefazione del pubblico; “bloccaggio”: attribuzione d’ogni difetto e nefandezza a chi, fermo su valori tradizionali, non accetta l’ideologia “gender”; “conversione” e conquista finale delle anime), si giunge – come sottolineano quasi ironicamente gli autori (cap. 3) – ad una situazione rovesciata rispetto alla precedente: per l’“omofobo” dovrebbero così spalancarsi le porte delle galere e, perché no, dei manicomi, qualora venissero riaperti. Per ora basti la “morte civile”, al pari del “razzista” o dell’“antisemita”.
L’interesse per il lettore di “Eurasia” di un libro come questo sta in ciò: che ogni competitore dell’Occidente è passibile dell’accusa di “omofobia”, col che si spiegano le campagne incessanti contro la Russia e Putin, marchiati col bollo dell’infamia da alcune lobby adeguatamente sostenute da chi detiene il controllo della finanza e di un’economia sempre più monopolizzata (tanto per stare in tema di “artificiosità”, si tratta degli stessi ambienti che premono per far adottare a tutto il mondo gli alimenti geneticamente modificati).
Il sospetto – più che fondato – espresso da Perucchietti e Marletta – è tuttavia che gli omosessualisti vengano per così dire usati, esattamente – aggiungiamo noi – come “gli ebrei” da parte degli anglo-sionisti, per giungere ad un punto in cui – mentre saranno liberalizzate (in attesa che cambi la morale diffusa) altre perversioni come la pedofilia o la zoofilia – l’essere umano vorrà trascendere se stesso in una parodia dell’autentica ascesi che va sotto il nome di “transumanesimo” (cap. 6).
Per questo gli autori mettono in guardia da un “illuministico” e “positivistico disincanto” da cui nascerebbe tutto ciò, che al contrario avrebbe un’essenziale connotazione “mistica” ed “esoterica”. La liberazione dalla natura e dalle “catene biologiche” non poteva che essere postulata e perseguita da uno “pseudoesoterismo” che per adesso si avvale del contributo di “scienziati” e dispensatori di salute e felicità in camice bianco, i quali insinuano l’idea che – alla luce delle “nuove tecniche di riproduzione” – la riproduzione stessa e l’atto sessuale vadano oramai separati.
Ciò sarebbe senz’altro il trionfo del pansessualismo e di Gaia (da cui, per inciso, “gay”, in quanto “l’amore omosessuale” sarebbe l’unico veramente “libero” e “gioioso”…).
Ecco perché in quest’inquietante congrega di ‘alchimisti’, tra cantanti e attori, scrittori e “intellettuali” (cap. 4), non potevano mancare coloro che – forti dell’usbergo fornitogli dal paravento di “autorevoli istituzioni internazionali” – predicano la “decrescita” ed una drastica riduzione delle nascite.
Può essere quindi definito un caso il fatto che la “crisi” in cui le nazioni occidentali si dibattono da anni, a parte le oggettive difficoltà materiali, va traducendosi in disorientamento (anche sessuale) ed ostacoli d’ogni tipo posti alla formazione di famiglie normali?

DA BIN LADEN AL “CALIFFO”: LA GUERRA FINALE CONTRO L’ISLAM (PER COLPIRE L’EURASIA)

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La fase finale della guerra dell’Occidente contro l’Islam è finalmente cominciata. Tanto più che quest’ultimo s’è dotato d’un ‘medievale’ e terrificante “Califfato”.

Non bisognava disporre di particolari doti profetiche per prevedere che prima o poi saremmo arrivati a tanto. Basta leggersi una raccolta di articoli pubblicati prima del 2008 che ho intitolato Islamofobia. Attori, tattiche, finalità (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008). Il capitolo finale, che riassumeva i termini della questione (Islam come “problema” e strategie geopolitiche atlantiche: un rapporto necessario, rivisto ed aggiornato per i corsi del Master Mattei dell’Università di Teramo col titolo Il “Grande Medio Oriente” e il momento anti-islamico dello “scontro di civiltà”), regge ancora bene alla sfida del tempo, perché, come recita appunto il titolo, la “paura dell’Islam” è da mettere in stretta relazione con le strategie geopolitiche atlantiche nel Mediterraneo e in Eurasia.

Da quando è stato proclamato un improbabile califfato a cavallo della Siria orientale e dell’Iraq centro-settentrionale (1), l’Islam è tornato prepotentemente nelle case degli occidentali, sottoposti a dosi da cavallo di messaggi sensazionalistici ed allarmistici capaci di provocare sconcerto e preoccupazione persino tra gli stessi musulmani.
Ma prima di giungere a tanto, serviva la cosiddetta “Primavera Araba”, il cui obiettivo principale è stato l’eliminazione dei “regimi arabi moderati” che almeno ufficialmente l’Occidente sosteneva da anni contro gli “estremisti” (e che erano in buoni rapporti – forse troppo buoni per i nostri “alleati” – con l’Italia della Prima ma anche della Seconda Repubblica).

Tutto però è cominciato con quello che definivo nel suddetto libro il “Big bang del XXI secolo”, ovvero l’azione “terroristica” in territorio americano attribuita alla fantomatica al-Qâ‘ida.
Ricordiamo bene come nei giorni che seguirono l’11 settembre 2001 uno degli argomenti principali della propaganda occidentale tesa a diffondere disprezzo e diffidenza verso l’Islam fosse la richiesta, fatta praticamente a ciascun musulmano, di dissociarsi dal “terrorismo”, secondo un assurdo postulato in base al quale “non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, ripetuto incessantemente dalla “fabbrica del consenso”.
C’era tuttavia una via d’uscita dalla gogna mediatica: l’adesione al cosiddetto “Islam moderato”, che in pratica consisteva (e consiste) in un’adesione formale alla religione islamica accettando però tutti i capisaldi antitradizionali del “pensiero moderno” (oltre all’adozione di una posizione “equidistante” nel cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”…).

A garantirci dall’orda famelica dell’Islam guerrigliero e spietato sussistevano comunque i “regimi arabi moderati”. I quali, dal 2011, dopo il celebre discorso di Obama al Cairo (giugno 2009) nel quale, astutamente, “tendeva la mano all’Islam”, sono stati rovesciati con le note tecniche di sovversione dall’interno denominate “Primavera araba”, altrove note come “rivoluzioni colorate”. Quando non bastava l’azione di prezzolati del posto, perlopiù tratti dai ranghi del cosiddetto “Islam politico” preceduti da sinceri ma sprovveduti “liberali” (oltre alla solita teppaglia che si trova sempre), l’Occidente interveniva col classico apparato di cannoniere e bombardieri (v. il caso libico).

Ricapitolando, ad una prima fase islamofobica dominata dalla figura di Osama bin Laden, del suo vice al-Zawahiri e degli altri luogotenenti (tipo al-Zarqawi), con tutto il corredo di “attentati terroristici” (Londra, Madrid ecc.) e teste mozzate cui facevano da contraltare le sparate da cowboy di Bush, le tute arancioni di Guantanamo e le “torture” di Abu Ghraib, ha fatto seguito la “fase della speranza”, col pubblico occidentale illuso sulle magnifiche sorti e progressive alle quali avrebbero aspirato le masse arabe e islamiche desideranti la “democrazia”. Una “democrazia islamica” sotto l’insegna dei Fratelli Musulmani e delle varie sigle ad essi riconducibili che qua e là hanno preso il potere.

L’apice di questa seconda fase nella quale anche i peggiori tagliagole diventavano araldi della libertà ha coinciso con la prima parte della cosiddetta “rivolta siriana”, che pur inscrivendosi nella “Primavera araba” ha posto in inevitabile risalto – data la posizione strategica della Siria – la portata strategica di un’operazione mirata al rovesciamento del regime di Damasco. Il quale, è bene ricordarlo, poco tempo prima era ancora considerato da alcuni partner occidentali, pur con qualche riserva (penso all’Italia), come un garante della “stabilità” nel Mediterraneo ed oltre.

Ad un certo punto, però, col rovesciamento del presidente egiziano tratto dai ranghi della Fratellanza musulmana, Muhammad Morsi (operato forse col sostegno russo?) (2), qualcosa nel dispositivo sovversivo innescato dagli occidentali s’è inceppato. La “rivolta siriana” è entrata in crisi, così come s’è incrinato il meccanismo sin lì tetragono della propaganda unilaterale occidentalista, anche se, a dire il vero, le voci discordanti rispetto al mainstream vertevano soprattutto sul “massacro dei cristiani” da parte dei fanatici islamici delle formazioni “jihadiste”; il che prefigurava la piega da “Nuova crociata” che finalmente s’è manifestata con l’emergere di quest’inedito “Califfato”.

Ma ormai la classica frittata era stata fatta. Con la Libia consegnata alle bande fondamentaliste ed enormi bacini petroliferi di Siria ed Iraq in mano ai seguaci del “califfo” (3), il volto più terrificante dell’Islam può finalmente entrare nelle case degli italiani e degli altri sudditi dell’Occidente.
Ed è questa la fase numero tre del progetto che punta a destabilizzare definitivamente tutto il Mediterraneo ed il Vicino Oriente, con la non troppo remota possibilità di vedersi coinvolti militarmente in una guerra non nostra che non abbiamo affatto cercato, per il semplice fatto che all’Italia il Mediterraneo ed il Vicino Oriente prima del 1991 (operazione Desert Storm) andavano bene così com’erano, fatto salvo Israele, che difatti non ha mai visto di buon occhio quegli statisti poi eliminati – giusto a partire dall’anno dopo… – con l’operazione mediatico-giudiziaria “Mani pulite”.
Da un punto di vista propagandistico, il terrore islamofobico che questa nuova fase è in grado di suscitare negli animi di persone ingenue, manipolate e conquistate ai “valori occidentali” è senz’altro più elevato di quello della prima fase con Bin Laden e soci a ‘bucare lo schermo’.
In fondo lo “Sceicco del terrore” e la sua organizzazione avevano attaccato solo l’America. Sì, dovevamo essere solidalmente “tutti americani”, ma ancora non ci sentivamo completamente imbarcati nell’impresa, ed infatti stavamo come sempre coi piedi in due staffe (vedasi la posizione dell’asse franco-tedesco nel 2003, quando l’Angloamerica invase l’Iraq). E chi l’ha detto che la “strage di Nassiriyya” sia dovuta ai “guerriglieri islamici” e non a qualche nostro indicibile “alleato”?
Ora non ci sono più scuse per sottrarsi e fare i “furbi”. Ce lo fanno capire con sempre maggiore insistenza. Non sorprende affatto, pertanto, che dalla bocca di ministri dell’attuale Governo italiano escano dichiarazioni possibiliste al riguardo di un nostro maggiore e più ‘fattivo’ coinvolgimento nelle operazioni in Iraq volte a debellare un pericolo che all’unisono viene definito non solo regionale, bensì “per il mondo intero”…
Il temibile “Califfato”, coi suoi alleati posizionati sulla costa libica, novelli saraceni, sta lì a minacciarci col suo “Medio Evo”; pertanto, se si vuol salvare la “modernità” con tutti i suoi “valori”, non è più possibile sottrarsi al richiamo alle armi dell’Occidente a guida anglo-sionista.
Frotte di “migranti” tra i quali potrebbero nascondersi dei “terroristi” vengono rovesciate sulle nostre indifese coste, mentre tra i figli della cosiddetta “seconda generazione” spopola il richiamo alla “guerra santa”. Da qualche parte, nel Levante, c’è un “Califfo” che vagheggia di conquistare Roma, mentre “i cristiani” e le minoranze subiscono massacri, e poco importa ai fini propagandistici se musulmani di vedute diverse da quelle dell’Isis sono sottoposti a medesimo trattamento. Questo è quanto trasuda da giornali e tg, che in due minuti frullano tutto in un cocktail terrificante al termine del quale il malcapitato ed impreparato spettatore non potrà che augurarsi una selva di bombe atomiche sull’intero Medioriente.
Infine, entrati nella terza fase, quella della “guerra totale” all’Islam, la concomitante “crisi ucraina” chiarisce anche ai cerebrolesi il nesso tra l’11 settembre, l’islamofobia e l’attacco all’Eurasia. Mentre la propaganda occidentale – senza nemmeno più l’impiccio d’un Berlusconi suo “amico” – dipinge Putin alla stregua d’un pazzo sanguinario ed irresponsabile, dobbiamo dunque temere che le stupide ed ingiustificabili “sanzioni” contro Mosca faranno il paio con un intervento armato della solita improbabile “Italietta” nel Levante islamico?

NOTE
1. Sulla teoria del Califfato ho scritto, su “Eurasia” 4/2007, pp. 35-44, Considerazioni sull’istituto del Califfato e la “Giustizia” nell’Islam.
2. M. Bassiouni, Sisi’s visti to Russia is message to the West, “Al Monitor. The pulse of the Middle East”, 13 agosto 2014 (http://www.al-monitor.com/pulse/tr/politics/2014/08/russia-egypt-relations.html).
3. Maurizio Blondet si chiede logicamente, riprendendo l’ex primo ministro iracheno al-Ja‘fari, come una compagine unanimemente bollata col marchio del “terrorismo” possa vendere il petrolio che inopinatamente controlla, ricavandone tre milioni di dollari al giorno. Cfr. Il Califfo: un altro pretesto per “vendere” l’attacco contro la Siria, “Effedieffe.com”, 26 agosto 2014 (l’articolo è per soli abbonati: http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=305228&Itemid=135).

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“… BERRANNO LE ACQUE DEL TIGRI E DELL’EUFRATE…”

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Alessandro imprigiona Gog e Magog

(…) tra due monti grande era, di rosso
bronzo, una porta (…)
(…) Il figlio dell’Ammone
la incardinò, per chiudere gli immondi
popoli (…)
(G. Pascoli, Gog e Magog)

Nel suo resoconto della conquista romana della Commagene al tempo di Vespasiano, Giuseppe Flavio rievoca il saccheggio della Media e dell’Armenia ad opera degli Alani, popolo nomade di stirpe iranica che abitava le steppe a nord-est del Mar d’Azov, tra il Don e il Mar Nero. “Il popolo degli Alani – scrive lo storico ebreo – dei quali abbiamo dichiarato in precedenza che sono Sciti che vivono presso il Tanai e la palude Meotide, avendo in quei tempi progettato di invadere la Media e le regioni situate oltre di essa per saccheggiarle, intavola trattative col re degli Ircani; costui infatti è padrone dell’accesso che il re Alessandro sbarrò con porte di ferro (pýlai sideraí)” (1). Il luogo d’accesso alla Media, controllato dal re degl’Ircani che da poco si era sottratto al dominio partico, era costituito dal valico delle Porte Caspie (Kaspiádes Pýlai), l’odierno passo di Firuzkuh alle pendici orientali dell’Alborz.
La menzione delle “porte di ferro” costruite da Alessandro Magno ci rimanda a un celebre episodio che ha come protagonista il sovrano macedone: l’imprigionamento delle orde di Gog e Magog all’interno di un’altissima muraglia. La storia, alla quale Giuseppe Flavio fa cenno, è narrata in maniera sintetica ma completa nei versetti 84-101 della coranica Sura della Caverna, dove si parla di un conquistatore divinamente ispirato, indicato come Dhû’l-qarnayn (“Possessore delle due corna”) e identificato generalmente con Alessandro Magno. Nel brano coranico si legge che Dhû’l-qarnayn, dopo aver portato a termine una campagna militare in Occidente e dopo avervi instaurato un governo fondato sulla giustizia e sul rispetto della Legge divina, si rivolse verso l’Oriente. Imbattutosi in un popolo semiselvaggio ma tranquillo, il Bicorne non cercò di cambiarne il tipo di vita, ma lo lasciò vivere secondo i suoi costumi. Infine giunse in un luogo situato tra due montagne, i cui abitanti gli fecero questo discorso: “O Dhû’l-qarnayn, in verità Ya’ğûğ e Ma’ğûğ diffondono la corruzione in questa terra (mufsidûna fî’l-ard); dobbiamo versarti un tributo, perché tu metta una barriera tra noi e loro?” (2) Il Bicorne accolse la loro richiesta, dicendo: “Il potere che il mio Signore mi ha conferito è meglio del vostro tributo; ma voi aiutatemi con la forza delle vostre braccia e io metterò tra voi e loro una muraglia. Portatemi dei blocchi di ferro” (3). Quando fu colmato lo spazio tra i versanti delle due montagne, il Bicorne ordinò agli operai di soffiare coi loro mantici, finché la massa divenne incandescente; quindi fece portare del rame liquefatto e ve lo fece versare sopra, sicché gli assalti di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ vennero frustrati. Disse infine il Bicorne: “Questa è misericordia del mio Signore; ma quando verrà il Giorno promesso dal mio Signore, Egli ridurrà in polvere la muraglia. E la promessa del mio Signore è verità” (4). Oltre a ciò, due versetti della Sura dei Profeti evocano lo scatenamento delle orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ alla fine dei tempi: “E c’è un’interdizione (harâm) su ogni popolazione che abbiamo distrutta: non ritorneranno fin quando non sarà data via libera a Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, i quali si precipiteranno giù da ogni altura” (5).
Il Profeta Muhammad, avuta la visione di un’apertura che si era prodotta nella barriera di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, ammonì: “Guai (wayl) agli Arabi! Facciano attenzione a un gran male che si sta avvicinando”; alla domanda che gli venne fatta (“Periremo anche se tra noi vi sono dei santi?”) rispose: “Sì, se la turpitudine si fa troppo grande”. In ogni caso, alla fine dei tempi il rapporto fra i seguaci del Profeta e le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ sarà di 1 a 999: “sarete tra la gente come un pelo nero sul fianco di un toro bianco”, dice un hadîth.  Secondo un altro hadîth, alla fine dei tempi Dio aprirà la muraglia che rinchiude le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, le quali usciranno a portare la devastazione in ogni luogo. “I primi di queste orde – prosegue il hadîth – berranno le acque del lago di Tiberiade e lo prosciugheranno; poi berranno le acque del Tigri e dell’Eufrate. Distruggeranno e mangeranno ogni cosa sulla faccia della terra. Allah, benedetto sia l’Altissimo, annienterà poi queste orde malefiche e le spazzerà via dalla faccia della terra” (6).
Sostanzialmente fedele ai termini coranici è l’esposizione della tradizione persiana del Sadd-e Sekander (“Barriera di Alessandro”) che troviamo nell’Eskandar-nâmè di Nezâmî di Gangè (1141-1204).
Ya’ğûğ e Ma’ğûğ corrispondono ovviamente ai biblici Gog e Magog. Nella visione di Ezechiele (7), Gog è il re di una non meglio precisata regione settentrionale, “la terra di Magog”, che reca il nome di uno dei sette figli di Jafet (8); nell’Apocalisse di Giovanni, Gog e Magog rappresentano le nazioni che, dopo aver dato l’assalto al campo dei santi e alla città prediletta, vengono distrutte dal fuoco celeste (9).
Ma l’analogia esistente fra il binomio biblico di Gog e Magog e quello coranico di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ si estende anche all’ambito indiano: nel Kalki-Purâna si racconta infatti come l’ultimo avatâra di Vishnu riesca ad uccidere due démoni di nome Koka e Vikoka (10).
Dalla presenza del tema in esame in testi tradizionali diversi consegue che “una caratteristica del complesso di Gog e Magog è quella di essersi diffuso in tutte le aree culturali dell’Eurasia” (11). Mentre la storia coranica del Bicorne, contaminata con la versione siriaca dello Pseudocallistene, dà origine a una rigogliosa letteratura che interessa sia il mondo musulmano, dalla Spagna alla Malesia, sia le aree cristiane dell’Egitto e dell’Etiopia (12), in Occidente l’elaborazione della leggenda di Gog e Magog ha il suo testo di maggiore rilievo nelle Rivelazioni dello Pseudometodio (13), che, inizialmente diffuse in greco o in siriaco intorno alla metà del VII secolo d. C., furono poi tradotte in latino.

Un popolo o un’orda di démoni?

Il suo vero nome era, pare, Goggins (…) Alla fine della guerra era uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, cioè del pianeta.
(G. Papini, Gog)

Nell’età antica e in quella medioevale, sia la cultura giudaica sia quella cristiana identificano le genti di Gog e Magog con diversi popoli barbari provenienti dal nord, perché le sedi dei nemici d’Israele sono ubicate a nord, in particolare nella dorsale che collega l’Europa nordorientale al Caucaso ed al Caspio. Il Dio di Israele dice infatti a Gog, signore del paese di Magog: “Sono con te Gomer e tutti i suoi, la casa di Tergama dell’estremo settentrione e tutti i suoi, popoli numerosi. (…) verrai dalla tua regione dell’estremo settentrione” (14). Tergama, o Togarma, è l’Armenia. Per quanto riguarda Gomer, primogenito di Jafet e quindi fratello di Gog, dovrebbe trattarsi dell’antenato dei Galati, dal momento che Giuseppe Flavio scrive nelle Antichità giudaiche: “Si chiamavano Gomeriti, da Gomer, quelli che ora sono chiamati Galati dai Greci. Magog chiamò Magoghi i suoi, mentre i Greci li chiamano Sciti” (15). Nella Guerra giudaica, come si è visto, il medesimo autore identifica negli Alani (“Sciti che abitano presso il Tanai e la palude Meotide”) il popolo situato olte le Porte Caspie, cioè oltre l’accesso alla Media che era stato sbarrato da Alessandro. E alani saranno i popoli di Gog e Magog anche per un ebreo del XII secolo, Beniamino di Tudela (16).
Non solo sciti e alani: Gog e Magog furono volta a volta unni, ungari, cumani, peceneghi, turchi, tartari, mongoli. Gli Ungari, diventati cristiani, dovettero ricollegare la loro origine all’albero genealogico dell’umanità tracciato dai testi biblici, cosicché accettarono di riconoscersi discendenti di Magog. Nelle prime pagine delle Gesta Hungarorum, redatte dall’anonimo P. Magister all’inizio del XII secolo, leggiamo: “Nella regione orientale vicina alla Scizia c’erano le genti di Gog e Magog, che Alessandro Magno isolò dal mondo rinserrandole (…) Il primo re della Scizia fu Magog, il figlio di Jafet, e dal re Magog quella nazione prese il nome di magyar. Dalla discendenza di questo re germogliò il famosissimo e potentissimo re Attila. (…) Molto tempo dopo, dalla stirpe del medesimo re Magog nacque Ügyek, padre del duce Álmos, dal quale sono discesi i re e i duci dell’Ungheria” (17). Anche l’autore del Chronicum pictum del 1358 ripropone la tesi della discendenza da Magog, ma contamina la storia biblica con la tradizione magiara, inserendo Hunor e Magor, mitici antenati degli Unni e degli Ungari, nella genealogia desunta dalla Genesi biblica (18). La stessa tesi è ribadita dalla Cronaca quattrocentesca di Thuróczi: “Dunque, come afferma la Sacra Scrittura e come dicono i maestri (doctores), gli Ungari sono discesi da Magog figlio di Jafet, il quale – come riferisce il vescovo San Sigilberto nella cronaca antiochense delle nazioni orientali – nell’anno 58 dopo il diluvio entrò nella terra di Eiulath e da sua moglie Enech generò i già menzionati Hunor e Magor, da cui gli Unni e i Magiari hanno tratto la stirpe ed il nome” (19). E ancora nel 1905 il poeta ungherese Endre Ady si dirà “figlio di Gog e di Magog”.
Secondo la Povest’ vremennych let, cronaca russa del XII secolo, alle orde imprigionate da Alessandro deve essere ricondotta l’origine dei popoli turchi. Rievocando le incursioni cumane avvenute nell’anno 6604 (=1096) nei dintorni di Kiev, il cronista, al fine di inquadrare la stirpe degli invasori pagani, riporta questo brano di Metodio di Patara: “Alessandro, imperatore macedone, giunse nei paesi orientali e fino al mare, nel paese detto del Sole, e vide qui uomini impuri della tribù di Jafet, dunque vide le loro oscenità (…) Avendo visto ciò Alessandro il Macedone, temendo che essi si moltiplicassero e profanassero la terra, li respinse nei paesi a settentrione tra le alte montagne, e, per volere di Dio, le grandi montagne si strinsero attorno ad essi, non si unirono le montagne soltanto per 12 braccia, e qui vennero erette porte di bronzo, e vennero unte con il sunklit (20): né il fuoco può bruciarlo né il ferro espugnarlo. Negli ultimi giorni verranno fuori otto tribù dal deserto di Jatreb, e verranno fuori anche questi popoli immondi, che sono tra le montagne boreali per volere divino” (21). Basandosi sull’autorità di Metodio, la Povest’ afferma che delle otto tribù del deserto di Jatreb quattro sono state distrutte al tempo di Gedeone, mentre dalle altre quattro hanno tratto origine i Turcomanni, i Peceneghi, i Turchi, i Cumani. “E Ismaele generò dodici figli, dai quali discesero i Turcomanni, e i Peceneghi, e i Turchi e i Cumani, cioè i Polovcy, che sono venuti dal deserto. E più tardi, queste otto tribù, al limitare del mondo hanno generato uomini impuri murati nella montagna da Alessandro il Macedone” (22). In tal modo la cronaca russa innesta sull’albero iafetico la progenie di Ismaele.
Fra i testi medioevali che identificano le genti di Gog e Magog con i Turchi, particolarmente degna di nota è la Cosmographia attribuita ad Etico Istrico. I Turchi, che secondo una paretimologia proposta da questo testo si chiamano così perché sono un “popolo truculento” (gens truculenta) (23), alla fine dei tempi devasteranno la terra. E Alessandro il Macedone, che in un anno e quattro mesi riuscì a rinchiuderli nelle terre del Nord, al di là delle Porte Caspie, può esser detto “Magno” proprio per aver inventato “tanti strumenti utili a respingere la follia degli uomini selvaggi (agrestium hominum vesaniam), che un giorno verranno certamente liberati, quando giungerà il tempo dell’Anticristo (temporibus antechristi), perché perseguitino i popoli pagani e puniscano i peccatori (in persecutionem gentium vel ultionem peccatorum)” (24).
Nel Milione si legge che la provincia di Tenduc, sulla quale regna Giorgio, un discendente del Prete Gianni, è lo stesso luogo “che noi chiamamo Gorgo e Magogo, ma egli lo chiamano Nug e Mungoli” (25). Marco Polo, che sulla scorta dei viaggiatori musulmani identifica il Muro di Alessandro con la Grande Muraglia cinese, identifica i “Nug” (“Ung” nella versione francese del Milione) con la tribù nestoriana degli Öngüt, e i “Mungoli” coi Tartari.
Mentre ebrei e cristiani hanno creduto di ritrovare le caratteristiche delle bibliche genti di Gog e Magog nei vari popoli che, affluendo dal cuore dell’Eurasia verso occidente, hanno minacciato lo spazio da loro abitato, la cultura islamica è stata meno propensa ad assegnare un preciso contenuto etnico all’archetipo coranico di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ. Infatti il Corano, come si è visto, si astiene completamente dal fornire una qualche indicazione che possa contribuire a identificare le orde in questione con una o con più popolazioni storiche. Nel planisfero disegnato nel 1154 da Al-Idrîsî per il Kitâb Ruğâr (26), le genti di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, localizzate in due porzioni dell’estrema periferia terrestre, sono ben distinte dagli Alani, così come dai Peceneghi e dagli altri popoli turchi. Ibn Khaldûn, che si basa sulla carta geografica di Al-Idrîsî, si limita a fornire dati relativi all’ubicazione delle sedi di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, ma non si impegna affatto nel compito di precisarne l’appartenenza etnica. “Vi sono nel Nord, – scrive Ibn Khaldûn – nazioni e razze distinte tra loro e chiamate con nomi diversi: Turchi, Slavi, Tughuzghuz, Cazari, Alani, Franchi, Gog e Magog” (27). I paesi di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ occupano la decima sezione della sesta “zona” (iqlîm, dal gr. klíma); nella nona sezione della sesta zona, a separare Ya’ğûğ e Ma’ğûğ dai Kimäk, dagli Adhkish, dai Türgish, dal deserto, dalla Terra fetida e dai Peceneghi, si trova il Muro di Alessandro, a proposito del quale Ibn Khaldûn riferisce il seguente episodio. “Il geografo ‘Ubayd-Allâh b. Khorradazbeh racconta che Al-Wâthiq vide, in sogno, che il Muro era aperto. Spaventato, inviò sul luogo l’interprete Sallâm, che ne riportò una descrizione e delle informazioni. È una lunga storia, che qui non ha nulla a che vedere” (28).
L’apertura vista in sogno da Al-Wâthiq era già stata vista dal Profeta Muhammad (29). Si tratta della fessura “attraverso cui penetreranno, all’approssimarsi della fine del ciclo, le orde devastatrici di Gog e Magog, le quali d’altronde esercitano continui sforzi per introdursi nel nostro mondo” (30).

Signore dell’Oriente e dell’Occidente

Victor utriusque regionis.
(Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni)

Abbiamo già avuto modo di notare (31) come l’Islam, tanto nel Corano e negli ahâdîth quanto nelle tradizioni e nelle letterature dei popoli musulmani, abbia narrato la storia di Alessandro attribuendo un particolare risalto alla valenza simbolica degli elementi che la compongono, per cui anche le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ sono state più che altro considerate come il simbolo delle influenze inferiori, caotiche e distruttive che cercano di insinuarsi nel mondo umano.
L’eloquenza del simbolismo di cui è ricca la storia di Alessandro non poteva sfuggire a uno scrittore come Ernst Jünger, il quale ha visto nel fendente vibrato a Gordio “un principio spirituale che è in grado di disporre in modo nuovo e più conciso del tempo e dello spazio” (32), sicché la spada di Alessandro diventa “lo strumento di una decisione libera e risolutiva ma anche di un potere sovrano” (33). Infatti la decisione, come insegna Carl Schmitt, è l’atto con cui un soggetto fornito di sovranità esprime la volontà di vincere il caos instaurando un ordine politico e giuridico in cui possa avere vigore la norma, il nòmos.
Nel caso di Alessandro, alla funzione di decisore è correlata quella di raffrenatore (katéchon), funzione che egli svolge alle Porte Caspie, dove trattiene e raffrena il mistero del disordine, dell’empietà, dell’iniquità (mystérion tês anomìas). È noto che le espressioni greche ho katéchon, tò katéchon, mystérion tês anomìas sono state usate da San Paolo nella seconda epistola ai Tessalonicesi (34) e che diversi esegeti del testo paolino, tra cui Tertulliano, Lattanzio, Giovanni Crisostomo, Girolamo e Giovanni Damasceno (35), hanno individuato nell’Impero romano “colui che trattiene” (ho katéchon) e la forza “che trattiene” (tò katéchon).
Tale ermeneusi può trovare conferma nella “leggenda di Alessandro”, in quanto nell’impero romano e negli imperi che successivamente ne riprendono l’eredità si riflette l’archetipo dell’impero fondato da “colui che trattiene” le orde di Gog e Magog. Il sacro romano imperatore Federico II di Svevia venne paragonato dai musulmani – e non solo da loro – a Iskandar Dhû’l-qarnayn (36); il Conquistatore ottomano, che umanisti e cronisti italiani del Quattrocento erano soliti equiparare a quello macedone, elesse come proprio modello Alessandro, “di cui vita e gesta gli erano probabilmente familiari fin dalla gioventù in base alle leggende islamiche” (37); e Napoleone, che già da Primo Console “accarezzava piuttosto l’idea di Alessandro, che si ripresenta ricorrentemente alle soglie di ogni civilizzazione” (38), nel 1812 fu tentato dall’idea di emulare il Macedone spingendosi alla conquista dell’India.
Ma cos’è che fa di Alessandro la Gestalt imperiale per eccellenza, cui si connettono intimamente i ruoli di decisore e di katéchon?
Come abbiamo già avuto modo di far notare (39), secondo la leggenda Alessandro percorse la terra in tutta la sua estensione orizzontale, da occidente ad oriente, per poi ascendere fino alla sfera del fuoco, percorrendo la direzione verticale complementare ed opposta a quella lungo cui era disceso quando si era calato in fondo al mare. Denis Roman ha dunque potuto osservare: “A questa espansione nel senso della ‘ampiezza’ può aggiungersi una ‘esaltazione’, simboleggiata dall’ascensione del conquistatore (…) La figura di Alessandro può essere così rapportata a una dottrina completa del Sacro Impero, integrante le due dimensioni, individuale e sopraindividuale, del simbolismo della Croce” (40). “Ampiezza” ed “esaltazione”, con cui Denis Roman traduce i vocaboli arabi inbisât e ‘urûj, termini tecnici del lessico esoterico dell’Islam, “corrispondono rispettivamente alle due parti del Viaggio Notturno del Profeta, simbolo per eccellenza del viaggio iniziatico: la prima, chiamata Isrâ’ (trasporto notturno), da Mecca a Gerusalemme, corrisponde alla dimensione orizzontale della croce, mentre la seconda, quella celeste, designata col termine Mi‘râj (mezzo d’ascensione, scala), corrisponde alla dimensione verticale e giunge al Signore della Gloria Onnipotente” (41). Secondo Fadlallâh al-Hindî al-Burhânapûrî (m. 1620), “sia l’esaltazione (‘urûj) sia l’ampiezza (inbisât) hanno raggiunto la loro pienezza nel Profeta, che Allâh lo benedica e gli dia la pace” (42), sicché è il Profeta Muhammad a rappresentare il modello esemplare dell’Uomo Perfetto (al-insân al-kâmil); ma lo stesso Profeta avrebbe detto che, tra tutti gli uomini, il più simile a lui è stato Dhû’l-qarnayn. Infatti il Bicorne realizzò sia la dimensione dell’“ampiezza” sia quella dell’“esaltazione”: se la Sura della Caverna pone in risalto l’ampiezza di un itinerario che si estese da Occidente ad Oriente, un hadîth riferito da ‘Amr ibn al-‘As fornisce il dato relativo all’esaltazione: dopo la fondazione di Alessandria in Egitto, “l’Altissimo inviò a lui (a Dhû’l-qarnayn) un angelo che lo prese e lo innalzò in cielo”, fino a mostrargli tutto il creato compreso tra l’Oriente e l’Occidente.
Le “due corna” evocate dall’epiteto coranico Dhû’l-qarnayn sono infatti – così come le due teste dell’aquila bicipite – il simbolo di “un duplice potere esteso sull’Oriente e sull’Occidente” (43). Due corna d’ariete erano il principale attributo di Ammone, del quale Alessandro si era riconosciuto figlio: “E vide ancora Ammone, con l’aspetto di un vecchio, con la barba d’oro e le corna d’ariete sulla fronte, che gli disse: Febo ti parla, che ha corna d’ariete” (44). E corna taurine erano quelle di Dioniso, che prima del suo emulo Alessandro aveva conquistato l’India e percorso l’Asia: “Le campagne dei Lidi ricche d’oro – ho lasciato e dei Frigi, e dalle plaghe – assolate di Persia e dalle rocche – della Battriana giunto all’invernale – terra dei Medi e all’Arabia Felice, – tutta l’Asia ho percorso” (45).
La figura del Bicorne si colloca dunque sullo sfondo dello spazio eurasiatico, che non costituisce soltanto lo scenario della sua impresa, ma la proiezione spaziale stessa dell’idea di impero.

Il retaggio di Alessandro

“Impero” significa qui il potere storico che riesce a trattenere l’avvento dell’Anticristo.
Carl Schmitt, Il nomos della terra

Sulla fronte della Torre del Trabucco, che si erge sulla destra della facciata del Duomo di Fidenza (già Borgo San Donnino), si trova incastrata una formella consunta, nella quale Benedetto Antelami ha raffigurato l’ascensione di Alessandro alla sfera del fuoco. In San Marco a Venezia, nella cattedrale d’Otranto ed altrove si trovano analoghe rappresentazioni del medesimo episodio, che in età medioevale conobbe un’ampia diffusione dalla Francia all’Etiopia (46).
Alla stessa altezza della formella di Alessandro, sulla base sinistra della volta del protiro, si trova una lastra scolpita a bassorilievo in cima alla quale sta l’iscrizione “Fortis Hercules”; vi è infatti raffigurato Eracle, che con la destra tiene sollevato per la coda un leone. Come la figura di Alessandro che ascende al cielo, così anche quella del suo antenato Eracle richiama la dottrina dell’impero, in quanto pure l’Alcide realizzò le due dimensioni della croce: l’”ampiezza” con la decima fatica (che lo portò dall’estremo occidente alle montagne orientali del Caucaso) e l’”esaltazione” con la dodicesima fatica (discesa al Tartaro) e con la successiva ascensione all’Olimpo.
Con Eracle volle identificarsi, assumendo l’appellativo di Herculeus, Marco Aurelio Valerio Massimiano (240-310), la cui figura compare tre volte sulla facciata della cattedrale fidentina, che è dedicata a San Donnino, cubicularius dello stesso Massimiano. Questo imperatore fu per i cristiani un pagano e un persecutore; e, per quanto in particolare concerne la vicenda del patrono di Fidenza, fu proprio un suo ordine a causarne il martirio. Tuttavia il rilievo “tipico” delle figure scolpite dall’Antelami induce a vedere rappresentata nell’immagine dell’imperatore più una funzione che non un particolare personaggio storico. Nell’icona di Massimiano Erculio bisogna probabilmente scorgere un simbolo dell’autorità imperiale, ossia di un potere la cui legittimità fu riconosciuta anche dai cristiani, come ci viene emblematicamente ricordato dal bassorilievo in cui è lo stesso San Donnino a posare la corona sul capo dell’imperatore.
Sul frontone del portale di sinistra, infine, troviamo un rilievo suddiviso in tre scene, nella prima delle quali troneggia, indicata dalla scritta “Karolus Imperator”, la figura di Carlo Magno, con la corona in capo, lo scettro nella destra e il globo nella sinistra. Carlo Magno è qui celebrato per i privilegi che concesse alla chiesa di Borgo; ma soprattutto egli rappresenta, nel contesto delle immagini, la nuova fase imperiale venuta a succedere alle due precedenti, rispettivamente simboleggiate da Alessandro e da Massimiano.
Il significato che si sprigiona dalla rete dei simboli conferma il fatto che nella coscienza medioevale è “ben salda l’idea della provvidenzialità di Roma, il cui Imperium non è visto come l’istituzione ‘diabolica’ persecutrice del Cristianesimo, ma l’Orbe nel quale il Cristo aveva scelto di nascere ed ove, grazie alla ‘pax’ assicurata dai Cesari, la nuova fede poté porre salde radici e permeare di sé il reggimento civile” (47). Ma la sinfonia delle immagini antelamiche esprime in modo ben chiaro anche un’altra idea: quella della continuità essenziale della funzione imperiale attraverso le varie epoche storiche. Al prototipo rappresentato da Alessandro e dal suo impero eurasiatico succedono l’imperium di Roma e quindi il Sacro Romano Impero, che nel corso dell’età moderna diventerà l’Impero austro-ungarico e come tale protrarrà la sua esistenza fino alla prima guerra mondiale. Sul tronco dell’Impero Romano d’Oriente si innesterà quell’”impero romano turco-musulmano” (48) che con la sua stessa esistenza smentirà quanti avevano identificato i Turchi con Gog e Magog.
Infatti ciascuna di queste manifestazioni storiche dell’idea di impero, indipendentemente dalla propria dimensione territoriale e dall’appartenenza religiosa della dinastia regnante, ha rinnovato l’azione del katéchon archetipico, tenendo a freno le spinte del caos e della dissoluzione. Solo il venir meno della forza “frenante” di cui erano depositari gl’imperi distrutti nella prima guerra mondiale ha consentito che si aprissero delle fessure decisive nella barriera che era stata eretta dal katéchon bicorne, sicché le orde di Gog e Magog, per riprendere le parole del hadîth, hanno bevuto le acque del lago di Tiberiade e poi quelle del Tigri e dell’Eufrate.

 

NOTE

1. Giuseppe Flavio, De bello judaico, VII, 7, 4.
2. Corano, XVIII, 94.
3. Corano, XVIII, 94-95.
4. Corano, XVIII, 97-98.
5. Corano, XXI, 95-96.
6. Al-Bukhârî, Sâhîh, 4741.
6. Il primo hadîth si trova nel Sahîh di Al-Bukhârî, che ne riporta sette varianti (LX, 7, 3346 e 3347; LXI, 25, 3597; LXVIII, 24, 5293; XCII, 4, 7059; XCII, 29, 7135 e 7136); il secondo hadîth è registrato anch’esso da Al-Bukhârî, come LXV, 4741; per il terzo hadîth cfr. Dâr al-Burhâniyyah, Il Mahdi e l’Anticristo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1988, p. 16.
7. Ezechiele, 38-39.
8. Genesi, 10, 5.
9. Apocalisse, 20, 7-10.
10. Kalki-Purâna, VII, 14-30. cfr. Le Kalki-Purâna, Première traduction du sanskrit en langue occidentale de Murari Bhatt et Jean Rémy suivi d’une étude d’André Préau. Préface de Jean Varenne, Arché, Milano 1982, pp. 116-117 e 206.
11. Giorgio R. Cardona, Indice ragionato, in : Marco Polo, Milione, Adelphi, Milano 1975, p. 640.
12. Dario Carraroli, La leggenda di Alessandro Magno, Tipografia G. Issoglio, Mondovì 1892, rist. anast. Arnaldo Forni Editore, Bologna 1979, pp. 150-208.
13. Die Apokalypse des Ps.-Methodios, hrsg. von A. Lolos, Meisenheim a. Glan 1976; E. Sackur, Sibyllinische Texte und Forschungen. Pseudomethodius, Adso und die Tiburtinische Sibylle, Halle a. S. 1898, rist. anast. J. Trumpf, Stuttgart 1974, pp. 144-148.
14. Ezechiele, XXXVIII, 6 e 15.
15. Antiquitates judaicae, I, 11.
16. „Jewish Quarterly Review“, 17 (1905), pp. 517-525.
17. A magyar középkori irodalma, Szépirodalmi könyvkiadó, Budapest 1984, pp. 10-11.
18. A magyar középkori irodalma, cit., p. 168.
19. Thuróczi János, A magyarok krónikája, Helikon, Budapest 1986, p. 13.
20. Sostanza che preserva dal ferro e dal fuoco.
21. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, Einaudi, Torino 1971, p. 146. L’episodio è presente anche nella favolistica russa: cfr. Aleksandr N. Afanasev, Antiche fiabe russe, Einaudi, Torino 1974, pp. 78-79.
22. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, cit., p. 132.
23. Alessandro nel Medioevo occidentale, a cura di Mariantonia Liborio, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori Editore, Milano 1997, pp. 322.
24. Alessandro nel Medioevo occidentale, cit., pp. 326-327.
25. Marco Polo, Milione, Adelphi, Milano 1975, p. 106.
26. La carta di al-Idrîsî si trova riprodotta, corredata dalla Clef de la Carte du Monde e la Légende de la carte di F. Rosenthal, in: Ibn Khaldûn, Discours sur l’Histoire universelle, Sindbad, Paris 1978, t. I, pp. 107-110.
27. Ibn Khaldûn, op. cit., t. I, p. 170.
28. Ibn Khaldûn, op. cit., t. I, p. 161.
29. Il Corano, Edizione integrale a cura di Hamza R. Piccardo, Newton & Compton, Roma 2001, p. 261 nota 39.
30. René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei Tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 209-210.
31. Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, pp. 73-74.
32. Ernst Jünger – Carl Schmitt, Il nodo di Gordio, Il Mulino, Bologna 1987, p. 32.
33. Ernst Jünger – Carl Schmitt, op. cit., p. 33.
34. 2 Thessalonicenses, 2, 6-7.
35. Massimo Maraviglia, La penultima guerra. Il “katéchon” nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2006, pp. 179-203.
36. Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore, Garzanti, Milano 1976, pp. 190 e 200.
37. Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi, Torino 1970, p. 548.
38. Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1957, p. 255.
39. Claudio Mutti, L’Antelami e il mito dell’Impero, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986, pp. 25-29; Idem, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, cit., pp. 70-79.
40. Denis Roman, Les Revues, “Études traditionnelles”, gennaio-febbraio 1975, p. 140. Trad. it. Il tabot etiopico, in : Michel Vâlsan, Il cofano di Eraclio, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1985, p. 55.
41. Michel Vâlsan, Références islamiques du “Symbolisme de la Croix”, “Études traditionnelles”, marzo-aprile e maggio-giugno 1971, p. 53.
42. Le Traité de l’Unité dit d’Ibn ‘Arabî, Paris 1977, p. 53.
43. René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1994, p. 172.
44. [Pseudocallistene,] Il Romanzo di Alessandro, a cura di Monica Centanni, Arsenale, Venezia 1988, pp. 41-43.
45. Euripide, Le Baccanti, trad. di Carlo Diano, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, Sansoni, Firenze 1980, p. 1008.
46. Claudio Mutti, L’Antelami e il mito dell’Impero, cit., pp. 12-23.
47. Angelo Terenzoni, L’ideale teocratico dantesco, Alkaest, Genova 1979, p. 44.
48. “The Greek Christian Roman Empire fell to rise again in the shape of a Turkish Muslim Roman Empire” (Arnold Toynbee, A Study of History, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158). Cfr. Claudio Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.

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STEFANO VERNOLE E SALVO ARDIZZONE ALL’IRIB: GUERRA CONTRO UCRAINA PER USA A COSTO ZERO, EUROPA SI SUICIDA

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TEHERAN (IRIB)- Salvo Ardizzone, saggista e redattore dell’agenzia di stamp ail Faro sul Mondo e Stefano Vernole, analista delle questioni politiche internazionale e vice direttore della rivista Euroasia sono stati I due ospiti della Tavola Rotonda di questa settimana.
Con loro abbiamo parlato della crisi ucraina, della Nuova Russia, degli cambiamenti geopolitici del mondo e di molte altre questioni ancora.
Per ascoltare il dibattito di questi due analisti potere cliccare qui sotto.

http://media2.ws.irib.ir/italian/media/k2/audio/167442.mp3

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IL SEPARATISMO UCRAINO E LA CHIESA UNIATE

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Punto di vista ortodosso sullo “scisma”

Roma era la capitale dell’Impero, ma anche l’unica sede apostolica in Occidente; in questo modo, i Papi di Roma erano i patriarchi dell’Occidente. Il battesimo di San Costantino il Grande e il trasferimento della capitale ad Oriente, a Costantinopoli, coincide con l’istituzione del Patriarcato di Costantinopoli, che divenne il secondo per importanza dopo quello romano: “Che sia elevato l’episcopato di Costantinopoli pari a quello di Roma, in quanto questa città è una nuova Roma” (Terza regola del Secondo Concilio Universale).
L’Oriente e l’Occidente erano uniti da mille anni; il 1054 è la datazione ufficiale per lo “scisma” tra le due chiese: il legato papale, il Cardinale Umberto, recapitò sull’altare di Santa Sofia l’atto di anatema nei confronti del Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario. Senza considerare il contesto storico del periodo, secondo le regole apostoliche l’Episcopo di Roma, non poteva condannare il Patriarca di Costantinopoli senza la convocazione del Concilio. La legge canonica della Chiesa, infatti, non concede ad un vescovo il permesso di intervenire negli affari locali di un’altra sede episcopale, ma lascia questo diritto soltanto al Concilio: “Per l’osservanza della regola precedente, riguardo alle aree di amministrazione, il funzionamento di ogni area sarà affidato alla chiesa che controlla la suddetta area, così come stabilito a Nicea” (Seconda regola del Secondo Concilio Universale).
Scomunicando solo il Patriarca di Costantinopoli, il Papa di Roma doveva mantenere rapporti con gli altri Patriarchi d’Oriente. Di fatto si creò una totale rottura nelle relazioni tra Roma e l’Oriente ortodosso. Gli altri Patriarchi d’Oriente non riconobbero la scomunica del Patriarca di Costantinopoli, mantenendo le loro relazioni con lui. In questo modo la Chiesa Universale, rappresentata dai Patriarchi d’Oriente, non accettò la scomunica del Patriarca di Costantinopoli. Un’unica Chiesa sacra ed apostolica si definisce anche comunitaria, in quanto il potere dell’attività religiosa (ed anche il potere decisionale) è trasmesso direttamente da Gesù Cristo attraverso lo Spirito Santo a tutto l’apostolato; di conseguenza, attraverso gli Apostoli, a tutto l’episcopato della Chiesa Universale. Né le Sacre Scritture, né il Sacro Testamento danno una qualche motivazione per privilegiare un qualsiasi rappresentante di una qualsiasi chiesa a danno delle altre chiese, in quanto una sola parte non può mai essere superiore all’insieme, anche se si tratta di una parte molto grande.

 

Storia dell’Unione di Brest

Nella seconda metà del IX secolo, i santi fratelli di Salonicco, gl’Isapostoli Cirillo-Costantino e Metodio, allievi del Santo Patriarca di Costantinopoli Fozio, diedero inizio alla diffusione del verbo divino tra gli Slavi. I primi furono quelli occidentali (Principato di Moravia) e meridionali (Bulgaria e Macedonia), poi quelli occidentali, nel Principato di Kiev. Questo atto di diffusione portò i suoi frutti: per atto del Patriarca di Costantinopoli, nel 955 a Bisanzio, ricevette il sacro battesimo la Santa Principessa Olga, e nel 988, a Chersoneso, sempre dall’Episcopo greco, ricevette il battesimo il nipote di Olga, il santo Isapostolo Gran Principe Vladimir. Anche se lo Stato kieviano era politicamente indipendente da Costantinopoli, la nuova metropolia kieviana era direttamente soggetta al Patriarca Universale. La prova più clamorosa del fatto che Kiev ricevette l’Ortodossia dall’Oriente (e non il cattolicesimo da Roma) è Santa Sofia di Kiev, che fu costruita sul modello della Chiesa della Divina Sapienza di Costantinopoli.
In conseguenza dell’invasione mongola e della disgregazione dello stato kieviano, nella seconda metà del secolo XV ebbe luogo la divisione della metropolia di Kiev in due parti: quella sud-occidentale e quella nord-orientale. Quella nord-orientale ottenne di fatto l’autocefalia, dopo il riconoscimento canonico di Costantinopoli.
Quella sud-occidentale (di fatto Kiev) conservò la propria dipendenza canonica dal Patriarca Universale. A quei tempi l’Ucraina entrò sotto il controllo di un Stato cattolico polacco-lituano (in seguito Regno di Polonia). Nonostante la dichiara “libertà di confessione”, il popolo ortodosso subì le repressioni dei delegati reali. In questo contesto storico, alla fine del XVI secolo, la Chiesa Cattolica indusse parte dell’episcopato ortodosso a passare sotto il controllo del Papa di Roma, promettendo beni e privilegi.
Il 23 dicembre 1595 a Roma venne firmata la “Unija”, per effetto della quale sei episcopi ortodossi passarono volontariamente sotto l’autorità del Papa, accettando anche tutti i fraintendimenti del cattolicesimo di Roma: riguardo al Filioque, al primato papale, al purgatorio, all’impossibilità di cessazione del matrimonio consacrato nella Chiesa, alle indulgenze (remissione dei peccati in cambio di offerte in denaro) ecc. Alla fine gli episcopi traditori consegnarono l’anatema alla Chiesa Ortodossa, rinnegando la loro amorevole madre. Il risultato fu che di ortodosso nella “Unija” rimase solo il “rituale greco”, per cui gli uniati vengono anche chiamati greco-cattolici.
Nell’ottobre del 1596 gli episcopi ortodossi rimasti si riunirono nel Concilio di Brest sotto la presidenza dell’Esarca Patriarca Universale Niceforo e con i deputati scelti dal popolo ortodosso. “La cerchia spirituale sotto la presidenza dell’Esarca Niceforo avviò il processo contro gli episcopi traditori. 1. Avevano violato il giuramento di fedeltà verso il Patriarca e la fede ortodossa; 2. Avevano violato le leggi del Patriarca di Costantinopoli all’interno dei suoi confini attestati dagli antichi Concili; 3. Autonomamente, senza la partecipazione né del Patriarca né del Concilio Universale, avevano osato attuare l’unione di due chiese; 4. Infine avevano ignorato il triplice richiamo degli Esarchi patriarcali e del Concilio. Dopo avere elencato queste colpe, l’Esarca Niceforo si levò in piedi e, tenendo nelle mani la Croce e il Vangelo, dichiarò a nome di tutto il Concilio che gli episcopi colpevoli venivano privati del diritto all’attività episcopale” (I fatti del Concilio di Brest, 1596). In seguito il governo polacco imprigionò l’Esarca Niceforo come “spia turca”; quando Niceforo trovò la morte nel carcere, era in odore di santità.
Se qualcuno dei fratelli maledicesse sua madre, vorrebbero gli altri fratelli mantenere il legame con lui?! I falsi episcopi uniati per ben due volte (Brest, Roma) hanno inviato l’anatema contro la loro madre spirituale, la Santa Chiesa Ortodossa, ed hanno rotto i legami con essa secondo la loro volontà: ”Sono usciti di fra noi, ma non erano de’ nostri; perché, se fossero stati de’ nostri, sarebbero rimasti con noi; ma sono usciti affinché fossero manifestati e si vedesse che non tutti sono dei nostri”. (I Giovanni, 2, 18-19)
Dopo l’unione della Piccola Russia con la Grande Russia, la chiesa uniate, perdendo il sostegno della Polonia cattolica, continuò ad esistere di fatto solo in Galizia. Persino nella Bielorussia occidentale si conservarono o comunità romano-cattoliche appartenenti alla minoranza polacca, o parrocchie e diocesi ortodosse russe.

 

Panorama storico della chiesa uniate nel secolo XX

È risaputo che la fine degli anni Trenta del XX secolo, periodo precedente la riunione dei territori ucraini occidentali con gli altri territori dell’Ucraina sovietica, fu il periodo delle più forti repressioni anticristiane nell’impero staliniano. Ma, paradossalmente, le repressioni si attenuarono nell’esatto momento del ricongiungimento dei territori russi mancanti; a parte questo, Stalin non voleva irritare le popolazioni dei territori ai confini distruggendo o chiudendo i loro templi.
Ciò permise non solo la salvezza delle chiese ortodosse in Bielorussia e in Bessarabia, ma anche delle chiese uniati della Galizia. Durante la Grande Guerra Patriottica, i chierici uniati, così come gli Ustascia latini croati, si distinsero per la loro stretta collaborazione con gli occupanti hitleriani. In particolare, con loro venne formata la divisione SS “Galičina”. Sono note le pulizie etniche effettuate da questi collaborazionisti nei confronti di Russi etnici, Ucraini ed ebrei presenti sul territorio dell’Ucraina sovietica.
Era un uniate anche il nazionalista ucraino Stepan Bandera, icona di culto sul Majdan di Kiev. Nella serie degli orribili crimini perpetuati dagli uniati rientra l’incendio del villaggio di Hatin’, abitanti compresi; pulizie etniche di questo genere possono essere paragonate, in qualche modo e in diversa misura, all’incendio appiccato dai moderni nazionalisti ucraini del “Pravij Sektor” alla casa dei sindacati di Odessa, dove si trovavano gli attivisti filorussi.
Dopo la Grande Guerra Patriottica, i banderovci non hanno deposto le armi, ma hanno continuato la lotta terroristica armata contro “l’occupazione sovietica”. I collaborazionisti di Galizia, tra i quali alcuni chierici della chiesa uniate, furono giudicati secondo le leggi sovietiche per i loro crimini, commessi sul territorio dell’Ucraina sovietica. La Chiesa uniate, con la benedizione del Vaticano, ha canonizzato costoro in qualità di “martiri” e “confessori”. Ciò ovviamente non è accettabile secondo i canoni e contraddice i precetti della Chiesa Ortodossa.
L’aperta ostilità della Chiesa cattolica, apertamente schierata dalla parte dell’Alleanza Atlantica occidentale dopo il discorso di Churchill che a Fulton inaugurò la Guerra Fredda, provocò una violenta reazione contro il Vaticano da parte della Conferenza di Mosca del 1948, la quale non era destinata a diventare un concilio universale… Nel 1946 ci fu il concilio di Leopoli, nel quale l’unione di Brest fu sciolta, per cui migliaia di parroci uniati con il loro seguito tornarono all’Ortodossia. Il diritto storico fu ripristinato.
Nel 1984, durante l’incontro a Malta fra il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e Papa Giovanni Paolo II, fu stipulato un patto che poneva termine alla persecuzione dei latini negli Stati Uniti e ciò in cambio dell’utilizzo, da parte della CIA, di loro e dei chierici uniati residenti in Galizia e Polonia. Questo piano fu perfettamente realizzato nell’Ucraina occidentale durante la Perestrojka: alla fine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta non solo venne “restaurata” la Chiesa Uniate, che assorbì i luoghi di culto della Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca, ma fu anche creata l’organizzazione scismatica del cosiddetto “Patriarcato di Kiev”, una struttura filouniate manovrata dai nazionalisti ucraini, russofobi della stessa base materiale. Di fatto, tre aree dell’ex Ucraina sovietica furono precluse alla Chiesa Ortodossa; una parte dei chierici e dei fedeli si scisse, mentre l’altra fu costretta ad abbandonare queste aree, dove fu instaurato uno speciale regime pseudoclericale sotto protettorato occidentale.
La cacciata dei fedeli dalle chiese fu anche accompagnata da eccessi (uccisione di parroci e di fedeli, violenze sugli episcopi), che il governo tentava di oscurare per non creare conflitti interreligiosi. Una parte dell’episcopato ortodosso passò alla “Unija” oppure si scisse…

 

Il Majdan e le minoranze etnico-religiose dell’ex URSS

Nell’Impero Russo l’etnonimo “ucraino” significava “uniate”. La Chiesa Uniate diventò un “punto di aggregazione” di quella forma chimerica ed etnica che va sotto il nome di “Ucraina”; l’identità galiziana uniate cominciò ad assimilarsi a tutti i popoli viventi sul territorio dell’ex URSS, in primo luogo gli abitanti della Piccola Russia, le regioni occidentali confinanti con la Galizia, la lingua parlata dei quali era il dialetto piccolo russo della lingua russa.
Bisogna notare che il territorio dell’ex URSS fu formato dal governo sovietico, il quale si basò sulle necessità militari e amministrative di un impero i cui diversi territori non erano mai appartenuti ad una specifica formazione statale e non avevano mai avuto un loro governo. “Il diritto all’autodeterminazione dei popoli, anche con l’uscita dall’URSS” veniva presentato dal governo sovietico e dalla società come una vuota formalità costituzionale.
Al momento del crollo (di fatto la demolizione) dell’impero sovietico, solo tre regioni dell’ex URSS erano abitate da ex uniati: quella di Leopoli, di Ivano-Frankovsk e Ternopil’. Le regioni adiacenti erano abitate da Piccoli Russi di fede ortodossa, mentre il sud-est era in maggioranza russo, ma abitato da varie altre etnie, per esempio i Greci del Ponto in Crimea e a Mariuopol’. Nel sud-ovest, a Vinnica, a Odessa e a Dnepropetrovsk c’era sia la presenza russa sia quella piccolo-russa a maggioranza ortodossa, nonché la minoranza ebraica: in queste terre nacque il movimento fanatico dei Hassidim.
Kiev come capitale dell’Ucraina sovietica è sempre stata un centro multinazionale, cosmopolita, culturale e spirituale. Molti attivisti della cultura russa ed ebraica vivevano a Kiev. I separatisti galiziani, che crearono la chimerica formazione pseudostatale “Ucraina”, impostarono come loro obiettivo primario la conquista della capitale. A tale scopo, come paradigma etnoculturale vennero presi l’aspetto e la lingua di un separatista uniate galiziano, che si dichiarava “ucraino consapevole”.
Questo paradigma etnoculturale si diffuse prepotentemente su tutto il territorio dell’ex Ucraina sovietica, ma in primo luogo a Kiev. Proprio per questo scopo è servita la creazione, all’inizio degli anni ’90 del secolo XX, della pseudochiesa scismatica del “Patriarcato di Kiev”, in modo da somministrare alla maggioranza ortodossa la stessa già ben costruita ideologia, ma questa volta in un involucro “ortodosso”. Storicamente tra i patriarcati ortodossi non è mai esistito il “Patriarcato di Kiev”, così come non è esistita “l’Ucraina”; nessuna delle chiese locali canoniche riconosce questa struttura scismatica né mantiene rapporti liturgici con essa.
Chi capeggia questa struttura è il violatore dei voti monastici ed un ex agente del KGB Michail Denisenko, ex metropolita della Chiesa ortodossa ucraina (Patriarcato di Mosca). L’ideologia principale dei “consapevoli” diventò l’odio indiscriminato verso l’epoca sovietica e la Grande Guerra Patriottica, la glorificazione dei collaborazionisti hitleriani e dei boia dei popoli dell’Ucraina sovietica: furono ricostituite le squadre militanti nazionaliste dell’Assemblea Nazionale Ucraina e dell’Organizzazione Nazionale Ucraina di Solidarietà, il tutto con “la grazia” di Michail Denisenko, il falso patriarca di “Kiev e tutta la Rus’”. Costoro avevano partecipato alle guerre cecene schierati contro i Russi, alla metà degli anni Novanta del XX secolo. Queste formazioni criminali formeranno la base dell’organizzazione armata del “Pravij Sektor”. Michail Denisenko, insieme coi suoi “chierici”, ha preso parte attiva al Majdan e al rovesciamento dell’ultimo presidente legittimo, Viktor Janukovič.
Tutti i movimenti nazionalisti degli anni Novanta del XX secolo e degli anni Dieci di questo secolo erano orientati a far salire al potere a Kiev i “consapevoli”, con ogni mezzo legale e illegale, con la corruzione e ricattando deputati, funzionari ed episcopi, con il Majdan e con le rivoluzioni arancioni, con l’attivo sostegno economico e politico dell’Occidente e del Vaticano. Agli uniati galiziani appartiene il ruolo principale: è un’uniate e agente della CIA Ekaterina, la moglie dell’ex presidente Viktor Juščenko. Anna German, una delle collaboratrici più strette del presidente Viktor Janukovič, apparteneva alla chiesa uniate e si è schierata con il Majdan. Le squadre del “Pravij Sektor” per molti anni si sono addestrate in un campo localizzato in un monastero uniate nella provincia di Kiev. Il centro uniate fu spostato dalla Galizia a Kiev col sostegno del Vaticano, nonostante le proteste della Chiesa Ortodossa…
Il disordine sul territorio dell’ex Ucraina sovietica, dilaniata dalla corruzione dopo la dichiarazione di “indipendenza”, creò un terreno fertile per l’azione impunita dei servizi di spionaggio occidentali e israeliani, che agirono sotto la copertura di “organizzazioni no profit”, logge massoniche e altre strutture mondialiste appartenenti alla grande rete delle società segrete. Secondo le informazioni del presidente della fazione socialista, Piotr Simonenko, alla metà degli anni Dieci più di trecento alti funzionari “ucraini” erano membri di parecchie logge massoniche; è improbabile che il numero sia diminuito negli anni del Majdan e delle “rivoluzioni arancioni”. E come si sarebbe potuto pensare di contrastare questo fenomeno, se il capo del SBU (Servizio di Sicurezza Nazionale), Valentin Nalivajčenko, ingaggiato dalla CIA da parecchi anni, offrì a queste dubbie organizzazioni un intero piano nella sede del suo dipartimento?
Il principio occidentale della “tolleranza confessionale”, orientata alla disgregazione della maggioranza ortodossa attraverso l’uguaglianza “davanti alle leggi” tra Ortodossi ed eterodossi, con “denominazione” canonica e non, portò altrettanto frutti marci. Di qui trae origine la nascita di parecchie sette carismatiche e di quelle sataniste di estrazione americana, del genere di Scientology, alla quale appartiene il primo ministro Jacen’juk, a sua volta appartenente all’etnia ebraica. La “benedizione” che il Papa gli ha impartita nel corso di un’udienza in Vaticano è considerata dagli Ortodossi un atto sacrilego. A questa setta carismatica appartenne anche l’ex sindaco di Kiev, Černovickij. Di origine ebraica sono molti attivisti del Majdan: Tjagnibok, Kličko, persino l’attuale “presidente del Ucraina” Piotr Porošenko (Valtsman), anche se formalmente è un fedele ortodosso. Gran parte degli oligarchi ucraini sono ebrei. Il centro medievale del Chassidismo, un tempo, fu Uman’, una città nella regione di Vinnica; l’attuale centro è Dnepropetrovsk, dove il chassida, oligarca e dirigente regionale Benja Kolomskoj ha costruito il più grande centro religioso e culturale ebraico d’Europa. Il chassida Benja Kolomskoj, presidente del congresso ebraico, è il principale patrono finanziario della cosiddetta “operazione antiterroristica” della giunta di Kiev, del genocidio dei Russi nei territori orientali e dell’organizzazione militante del “Pravij Sektor”. Benja Kolomskoj ha rinverdito i fasti del Kaganato khazaro e del loro condottiero Pesan’ja.
Questo è il risultato complessivo del lavoro svolto per allontanare i popoli dell’ex Ucraina sovietica dalla Russia e dall’Ortodossia, lavoro svolto dall’Occidente, dal Vaticano con l’aiuto attivo di Israele, mediante lo sfruttamento delle minoranze etniche e religiose e delle loro organizzazioni.
Il governo della Federazione Russa, ipnotizzato dagli oligarchi ebrei e dalla “quinta colonna”, si appoggiava esclusivamente su un popolo unito dalla stretta collaborazione economica e sui legami religiosi e culturali sostenuti dalla Chiesa Ortodossa Russa, della quale fa parte tuttora la Chiesa Ortodossa Ucraina (Patriarcato di Mosca), nonostante la sua ampia autonomia. Ma la rivolta anticostituzionale e il governo sanguinario della giunta di Kiev e la realtà del genocidio hanno trovato impreparato il governo russo.
Da un certo punto di vista, parte della Chiesa Ortodossa Ucraina (Patriarcato di Mosca), quella corrotta o quella “consapevole”, ha favorito la rivolta anticostituzionale e la successiva attività della giunta di Kiev. Questo contesto ha costretto una parte della popolazione del Donbass e di Lugansk a ricorrere ad estremi rimedi per difendere la propria terra, la propria casa e la propria identità etno-religiosa. L’unica cosa che possiamo augurarle è: “Che Dio vi aiuti!”

*Dmitrij Nazarov è un chierico del Patriarcato di Gerusalemme, ordinato sacerdote nel 1998 dal Metropolita di Nazaret, Kipriak. Inviato in missione in Italia, ha istituito una parrocchia a Reggio Emilia.

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TAIWAN E IL MERCATO NAUTICO

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Nel corso dell’ultimo decennio, i prodotti del settore della nautica da diporto stanno interessando sempre maggiormente la upper-middle class di alcuni tra i più industrializzati paesi dell’Estremo Oriente. Sulla scia di questo fenomeno, i protagonisti della neonata produzione di imbarcazioni dell’isola di Taiwan stanno cercando di emergere nel panorama asiatico, ponendosi l’obiettivo di diventare marchi di riferimento di quel comparto da sempre dominato dagli storici cantieri navali europei e nordamericani, i quali oggi più che mai soffrono gli effetti della crisi economica globale.
Quella dello yachting è tuttavia un’esperienza nuova per gli abitanti di Taiwan e lo è in tutti i sensi: nuovi prodotti, nuovi target, ma anche nuovi marchi che ora cercano di farsi conoscere attraverso un nuovo salone nautico. Le imbarcazioni sono costruite da strutture già attive nella produzione di unità per il trasporto marittimo di merci e passeggeri, nel settore della pesca e in ambito militare, alcune delle quali sono presenti sul mercato da oltre mezzo secolo, seppure si interessano al diporto soltanto da pochi anni.
Prima d’oggi dunque, i taiwanesi sembrerebbero non aver avuto grande considerazione delle potenzialità economiche del mare intorno ad essi, almeno dal punto di vista turistico e sportivo, e le ragioni di questo insolito fenomeno sono da ricercarsi nella storia del paese.
Taiwan è un’isola con una superficie di appena 36 mila chilometri quadrati e conta 23 milioni di abitanti che generano un prodotto interno lordo di 474 miliardi dollari USA (2012). Dal punto di vista geografico, la sua posizione è al largo della costa sudorientale del vasto territorio amministrato dalla Repubblica Popolare Cinese, con la quale però il governo taiwanese, anche noto come R.o.C. (Republic of China), è in conflitto dal 1949, anno in cui il generale Chang Kai-Shek, leader del movimento nazionalista Kuomintang e nemico dei comunisti di Mao Tse-dong, si spostò da Nanchino a Taipei portando con sé il suo entourage e parte delle truppe.
Questo è il motivo per cui oggi, nella comunità internazionale, Taiwan conserva uno status giuridico molto particolare. Questa controversa situazione diplomatica è constatabile anche a Roma: un’ambasciata della R.o.C. è accreditata presso la Santa Sede, ma non esiste una sua omologa presso la Repubblica Italiana.
Proprio a causa della tensione tra “le due Cine”, gli abitanti di questa piccola ma sviluppata nazione insulare hanno perso ogni intima relazione con l’oceano che circonda la loro terra. Il mare è stato considerato per oltre mezzo secolo un pericoloso confine, “il muro” di divisione da un vicino ostile e questo è stato il principale impedimento allo sviluppo di tutte le attività marittime, ad eccezione di quelle di servizio appunto, come i trasporti e la pesca.
Tuttavia, negli ultimi anni la situazione sta progressivamente migliorando. La maggiore apertura della Cina popolare nei confronti dei paesi vicini ha dato luogo a rapporti più distesi anche con Taiwan e i problemi politici sembrano essere momentaneamente in una fase di stand-by. Grazie a questa distensione e ad un graduale mutamento dello stile di vita asiatico, sempre più ispirato ai modelli di Europa, Stati Uniti e Oceania, i taiwanesi stanno iniziando a scoprire e apprezzare il blu del loro oceano al punto che, a maggio di quest’anno, hanno realizzato la prima esposizione di imbarcazioni e accessori nautici: il “Taiwan Int’l Boatshow 2014”.
La manifestazione serve dunque a facilitare la diffusione di una nuova idea del mare nella società. L’obiettivo del governo è infatti quello di implementare un settore che, in un futuro abbastanza prossimo, potrebbe arrivare ad occupare un ruolo centrale nell’economia di un paese attorniato dal mare e che ha una posizione strategica nell’Oceano Pacifico.
Altro motivo, seppure apparentemente futile, ma che ha contribuito a sfavorire lo sviluppo delle attività marittime ricreative in Asia, è una certa avversione da parte dei popoli orientali nei confronti dell’esposizione alla luce solare. I loro canoni estetici sono sempre stati piuttosto differenti da quelli europei, soprattutto per quanto concerne la cosmesi e le pratiche utilizzate per migliorare la propria bellezza fisica. Il colorito della pelle determinato dalla lunga esposizione alla luce solare dunque, quell’eritema a noi noto come abbronzatura, per gli asiatici connota lo stile di vita delle persone che lavorano duramente sotto il sole e che raramente possono concedersi degli svaghi. La “tintarella” a quanto pare, non rientra ancora tra le caratteristiche estetiche anelate dagli “yuppies” nati dal benessere economico del Levante. Essi infatti, si proteggono dal sole utilizzando copricapi, ombrellini e creme idratanti. Neanche la tradizione familiare taiwanese, rispecchiata dai media e dai prodotti audiovisivi, presenta o solamente accenna a scene di gite in barca, bagni di mare, campeggi sulla spiaggia, battute di pesca con i parenti o sfide in watersports tra amici. Malgrado tutto questo, i responsabili del Taiwan Trade Center sono piuttosto ottimisti riguardo alle possibilità di sviluppo del comparto, pur riconoscendo quanto il cammino da seguire sia lungo ed impervio.

 

La nuova nautica asiatica

La produzione di imbarcazioni è localizzata per il 76% sulla costa sudoccidentale tra le città di Tainan, Kaohsiung e Pingtung, dove si trovano i 37 marchi che oggi rappresentano il cluster navale del paese.
Riguardo alle prospettive di sviluppo della nautica da diporto in Estremo Oriente, Taiwan si trova certamente in una situazione favorevole rispetto alla vicina Cina popolare. Infatti, mentre in quest’ultima nazione il governo non permette normalmente ai suoi cittadini di uscire dal paese senza un regolare permesso (complicato da ottenere anche solamente per salpare dal territorio continentale e raggiungere altre isole sotto l’amministrazione della Repubblica Popolare), gli abitanti di Taiwan sono invece privilegiati dallo status di cittadini liberi che permette loro di praticare il turismo internazionale a tutti i livelli. I giovani spesso frequentano le università europee e statunitensi considerando un “Grand Tour” molto in voga, quello tra Venezia, Firenze e Roma.
Il paese ha un’economia in costante crescita, favorita da un’imposizione fiscale bassa, soprattutto per le imprese. Tanto per farci un’idea del suo livello di sviluppo tecnologico, ricordiamo che dal 2004 la capitale Taipei ospita il grattacielo One o one, dotato di un ascensore in grado di raggiungere i 60 Km/h di velocità, rimasto per alcuni anni dalla sua costruzione il più alto del mondo e oggi ancora al quinto posto nella classifica di quella specie di competizione alla quale le potenze economiche partecipano sempre più ansiose di vantare ciascuna il proprio emblematico simbolo di sviluppo verso i cieli della finanza globale.
Lo sviluppo industriale che negli ultimi trent’anni ha determinato il boom economico di questa operosa nazione è derivato principalmente dalla produzione di semiconduttori, componenti elettronici di consumo e motorscooter, tra i più venduti in Europa. Il benessere sopraggiunto ha provocato un fenomeno di “occidentalizzazione” del life-style e dei gusti dei suoi abitanti, divenuti cultori degli articoli Made in Italy che qui costano carissimi e sono reperibili unicamente nelle versioni originali. A Taiwan infatti, attualmente pare impossibile imbattersi in prodotti falsi o contraffatti, anche grazie alla presenza, sempre più massiccia, di negozi delle più importanti firme che sembrano fungere da “presìdi” per ottenere dal governo il rispetto dei trattati internazionali riguardanti brevetti e diritti d’autore, come non avviene in altri paesi vicini.
Questo continuo miglioramento della qualità della vita dei taiwanesi sta culminando in una consistente richiesta di beni di lusso che da qualche anno inizia a coinvolgere anche il mercato nautico, spingendo l’imprenditoria del settore a investire in una produzione sempre più diversificata, fino ad includere le unità da diporto oggi proposte sul mercato interno e su quello internazionale. Attualmente infatti, sull’isola si realizzano megayachts e barche di medie e piccole dimensioni, sia a motore che a vela e la committenza inizia ad affacciarsi anche da altri paesi del sud-est asiatico, dall’Oceania, dagli Stai Uniti e, seppur più timidamente, dal nostro Vicino Oriente.

 

Kaohsiung e il salone nautico

Il neonato comparto potrebbe dunque definirsi già in fase di espansione. La sua città di riferimento è Kaohsiung, la seconda del Paese, situata nella parte meridionale. Anche in quest’ultima sorge uno dei grattacieli più alti del mondo, il Tuntex Sky Tower, essa è infatti una moderna metropoli di medie dimensioni con 2 milioni e 700 mila abitanti e un clima tropicale (si trova alla latitudine del 22° parallelo Nord) caratterizzato da buoni venti che certamente facilitano lo sviluppo delle attività veliche anche grazie all’enorme porto in grado di ospitare unità da diporto di qualsiasi tipo e dimensione.
Da quest’anno, la città è dotata di un Exhibition Center, una struttura fieristica al coperto che consiste in un ampio padiglione dal moderno design curvilineo, totalmente privo di colonne per permettere agli espositori di presentare, anche sulla terraferma, imbarcazioni di qualsiasi forma e dimensione. In questo luogo si è svolta la parte “a secco” dell’esposizione, ovvero quella degli stand in cui sono stati presentati prodotti e servizi che non necessitano di particolari infrastrutture nautiche. Altra importante novità per la città di Kaohsiung e per il suo porto, oggi quattordicesimo nella classifica mondiale per estensione e movimentazione annua di merci, è il “marina” ultimato in occasione di questo evento nelle acque antistanti il padiglione, prima opera di ingegneria civile del paese adibita alla ricettività di imbarcazioni da diporto.

 

L’importanza del Made in Italy

Durante la manifestazione è stata inoltre allestita un’isola artificiale sulla quale sorgeva un’area riservata alla stampa internazionale e alle personalità di rilievo, a cura del cantiere Jade Yachts, il quale insieme a Horizon è attualmente uno dei principali marchi del mercato taiwanese. Su uno dei lati di questa struttura flottante, si trovava ormeggiato il “959”, uno dei primi emblemi del “nuovo lusso galleggiante” di Taiwan: uno yacht di 52 metri di lunghezza dagli interni realizzati con design, materiali e componenti interamente Made in Italy. Un’ulteriore dimostrazione di quanto la produzione italiana sia apprezzata in questo paese, è stata la presenza su questa sorta di isola V.I.P., di alcune delle nostre più prestigiose autovetture, ovvero Ferrari e Maserati, esposte con l’intento di definire e sottolineare il target di utenza a cui mirano i grandi del comparto.
Malgrado non vi sia stata una consistente quantità di espositori europei, bisogna rilevare la presenza di una decina di imprese asiatiche dedite alla rivendita di prodotti di case europee. Erano presenti inoltre 36 espositori giunti da Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Singapore, Hong Kong, Indonesia e Cina continentale.
Il salone nautico è stato visitato da oltre 30 mila utenti, di cui circa un migliaio prevenienti dall’esterno del paese (fonte TAITRA). È stato organizzato dal Bureau of Foreign Trade di concerto con l’amministrazione cittadina e con il Taiwan Trade Development Council. Ha ospitato un totale di 168 cantieri, con 861 stand al coperto e oltre 60 barche, comprese piccole derive e unità di oltre 50 metri di lunghezza. Grazie alla vicinanza geografica della maggior parte dei produttori con il luogo dell’esposizione, nel corso di essa è stato possibile permettere ai futuri clienti e ai potenziali interessati pervenuti, di visitare parte degli impianti di produzione e di conoscere personalmente alcuni tra i nuovi protagonisti della nautica asiatica.

*Marco Troccoli è esperto di nautica da diporto e docente di lingue straniere applicate alle professionalità marittime. Collabora con importanti testate italiane e conduce una ricerca sulle prime esplorazioni dell’Oceano Pacifico nell’ambito di un dottorato di ricerca presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

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INTERVISTA A ENRICO GALOPPINI, REDATTORE DI EURASIA

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Abbiamo voluto porre alcune domande al prof. Enrico Galoppini, storico e ricercatore, esperto delle tematiche del mondo islamico e redattore della rivista Eurasia.

1 – È evidente a tutti come il mondo stia attraversando una fase estremamente critica: crisi economica, ambientale, conflitti politici, guerre, epidemie… Come interpreta tutto questo? Qual è il quadro generale?

La cosiddetta “crisi” ha tutte le caratteristiche dell’avvio di una fase di “tribolazione”, di durata indefinibile, che dovrebbe condurre l’intero genere umano ad una “Nuova Era”.
Ora, quest’ultima definizione si presta ad ogni genere di contenuti, anche diametralmente opposti, ma è evidente la sensazione generale di una “attesa” di qualche cosa di grosso, di epocale, che ciascuno interpreta in base alle proprie credenze ed aspettative.

A questa “Nuova Era”, che taluni identificano con un “cambio di paradigma”, altri con un “nuovo modo di pensare”, altri ancora con una sorta di nuova “Età dell’oro” nella quale gli esseri umani saranno finalmente “liberi” e “consapevoli”, si deve per forza di cosa pervenire attraverso la demolizione di quelli che sono stati gli elementi sin qui costitutivi della presente umanità.

È così che possiamo interpretare correttamente i tentativi di modificare intimamente l’essere umano, dopo averne stravolto gli assetti socio-politici a partire dalla cosiddetta “Età delle rivoluzioni”.
È questa, tipicamente, l’azione delle Forze della sovversione, esistenti ab initio, ma sin qui provvidenzialmente “trattenute” finché gli uomini hanno avuto “fede”. Adesso, dopo un’opera certosina di preparazione, con l’“ideologia di genere” si giunge ad un punto cruciale di quest’azione sovvertitrice, la quale s’è finora avvalsa di strumenti che vanno dal denaro alla forza bruta, dal “progresso scientifico” alla “tecnica” eccetera, il tutto condito e sorretto da un capillare apparato di manipolazione delle coscienze (scuola, “cultura”, “arte” e mass media).

Per questi motivi che ho sintetizzato è fondamentale oggigiorno tenersi saldi alla Tradizione, nella misura in cui se ne è capaci, rigettandone le innumerevoli contraffazioni in tempi di “falsi profeti” e tutti i tentativi di presentarla per quello che non è. Insomma, guai di questi tempi a chi pensa di cavarsela con le proprie esclusive forze perché la potenza dell’inganno è troppo forte.

2 – Perché d’improvviso siamo ripiombati in un clima da guerra fredda? Cosa ha spinto “l’Occidente” a destabilizzare l’Ucraina e rendere problematici i rapporti tra Europa e Russia?

Alla luce di quanto ho detto poc’anzi, la “seconda Guerra fredda” doveva per forza di cose inverarsi. Ciò dovrebbe anche dare una sonora sveglia a chi credeva che fino a vent’anni fa lo scontro fosse tra “Capitalismo” e “Collettivismo”, tra “Americanismo” e “Bolscevismo”.
Niente di più falso. L’azione delle Forze della sovversione, il cui obiettivo finale è esattamente l’essere umano, sorta di “tempio” e creatura prediletta di Dio, dopo aver avuto ragione di quella parte di umanità “occidentale” deve assoggettare anche quella “orientale”.

Con ciò intendo dire che mentre l’uomo “occidentale”, e quindi “moderno”, ha scambiato il mezzo col fine, e perciò è interamente rivolto verso la mondanità avendo abdicato ad tutto quel che ne definiva la “virilità”, quello “orientale” antepone ancora valori tradizionali quali l’Onore e la Fedeltà e, perché no, l’amor di patria. Egli ha ancora una sua nobiltà interiore, e lo si vede nel modo in cui nell’Ucraina orientale si battono strenuamente contro quelli che sono stati incaricati di fagocitarli nell’Occidente e nella Nato. Identica cosa può dirsi per i patrioti siriani e quelli palestinesi, che ovviamente sono ben lungi, come i russi, dall’accettare abnormità quali le “nuove forme di genitorialità”, le “adozioni gay” e tutta quell’ingegneria genetica che, in nome dell’“amore”, dovrebbe condurre di fatto all’acquisto di un bambino.

D’altra parte non è stato proprio un russo – Dostoevskij – ad aver affermato profeticamente “se Dio non esiste tutto è permesso”?
Da un punto di vista geopolitico – comprensibile tuttavia solo se non si fa della geopolitica una scienza a se stante – l’attacco all’Ucraina, architettato come “autodeterminazione” del popolo ucraino e successiva “difesa” dalla “aggressione russa”, s’inserisce nella manovra che, a partire dalla Prima guerra mondiale, l’America, strumento privilegiato delle Forze della sovversione, conduce sul cosiddetto “Vecchio mondo”. Pertanto, non si deve disgiungere la “Questione mediorientale” da quella che oggi vede protagonista l’Ucraina: l’obiettivo è l’estensione al mondo intero del “mondo moderno”.

3 – Anche in Medio Oriente la destabilizzazione occidentale è all’opera: dopo Libia e Siria ora nel bersaglio è di nuovo l’Iraq. Come lo spiega, e come vede evolversi la situazione?

Attualmente i musulmani sono estremamente divisi in sette e sottogruppi che non danno alcun segno di volersi unire contro “il nemico principale”. Sembra proprio di essere di fronte ad elementi immersi nel più inconcludente tribalismo e settarismo.
Sulla Libia bisogna stendere un velo pietoso, tale è il regresso – da ogni punto vista – registrato nella ex Jamahiriyya. D’altronde, quanto è accaduto è indice del fatto che probabilmente non ne vale la pena di darsi tanto da fare per migliorare le condizioni di gente che alla prima occasione propizia baratta una sorta di Bengodi con un caos permanente. Lo stesso, in misura ridotta, dicasi per la Siria: quale profitto ha tratto il popolo siriano da questa “ribellione”? Per l’Iraq – sebbene il rovesciamento del regime ba’thista rientrasse nell’anzidetta manovra avvolgente l’intera Eurasia – il discorso è un poco diverso, poiché se senz’altro gli iracheni “stavano meglio quando stavano peggio”, oggidì, dopo oltre vent’anni di guerra, embargo e poi ancora guerra ed occupazione, possono dire di non sapere più nemmeno cosa vuol dire vivere in pace e nel benessere socio-economico, esattamente come gli afghani. La cui terra, guarda caso, era già nell’Ottocento al centro del cosiddetto “Grande gioco”, assolutamente correlato alle ultime manovre occidentali in quella regione.
Come possa evolversi la situazione è arduo prevederlo. Difficilmente, e solo a costo di una riduzione dell’Islam ad una specie di Puritanesimo vittorioso dal Marocco all’Iraq, fino all’Indonesia, avverrà una unificazione della “umma” in grado di ribaltare – ma a quel punto “illusoriamente” – la situazione. Anche perché questo Islam letteralista e modernista, contrario a quattordici secoli di tradizione, ammiratore incondizionato della scienza e della tecnica moderne (senza rendersi conto della mentalità che le ha prodotte!), vede un “pericolo” più nella Russia che nell’America, il che la dice lunga su “chi” l’ha incoraggiato e foraggiato.

Sappiamo tutti dei progetti di cantonizzazione dell’intero Vicino Oriente musulmano coltivati nei “pensatoi” anglo-sionisti, che hanno prodotto anche il cosiddetto “Stato d’Israele”. I confini posti a tavolino, dopo la Prima guerra mondiale, sono tutti più o meno arbitrari, tuttavia è evidente che se gli Stati-nazione, seppur “d’importazione”, avevano costituito ancora un grattacapo per gli occidentali, la tendenza è quella verso la loro dissoluzione. Ma non credo che la risposta giusta sia quella dei fautori dello “Stato islamico” a cavallo tra Siria e Iraq, che al di là del lugubre “spettacolo” da essi fornito, non sembrano disporre del “carisma” – e sottolineo “carisma” – necessario per una “riunificazione” della comunità dei musulmani.
Il cuore del problema sta in Arabia, su questo non c’è dubbio, perciò chiunque punti a risolvere la questione della disunione della “umma” deve venire a capo di quel problema. Ma anche qui, le avvisaglie non sono incoraggianti, poiché anziché inclinare verso l’Islam “interiore” e farsi ricettacoli dello Spirito (proprio in previsione di quella “Nuova era” cui accennavo all’inizio), questi modernisti specializzati nell’anatema verso gli altri musulmani e nella condanna di tutte le altre religioni non fanno mistero di voler radere al suolo persino la Casa di Dio a Mecca, la Ka‘ba, in nome della lotta alla “idolatria”…

4 – Fino a che punto i “BRICS” sono indipendenti, se lo sono, dal sistema di potere finanziario che domina l’Occidente?

A questa domanda si è tentato di fornire una risposta in vari numeri di ”Eurasia – Rivista di Studi geopolitici”, in particolare in “BRICS: i mattoni del nuovo ordine”. Per quanto riguarda questo problema, a mio avviso è fondamentale porsi un paio di domande: in che misura questi Paesi emergenti intendono collaborare solidalmente per estromettere il “blocco Occidentale” anglo-sionista? E, soprattutto, quale “alternativa” essi rappresentano al “modello” promosso dall’Occidente?
Nello specifico, al riguardo del primo punto, possiamo rispondere con un’altra domanda. Qual è il livello dell’interconnessione con le reti finanziarie ed economiche occidentali? Detto più esplicitamente: i BRICS preferiscono una politica di compromesso o la rottura drastica con gli occidentali?
Questi ultimi ovviamente non stanno a guardare e, anzi, tentano di alimentare dissidi tra i BRICS stessi, oppure impediscono alla loro “periferia” (l’Europa, per esempio), d’intessere rapporti troppo stretti con costoro (è stato notato che la “crisi” della Grecia ha coinciso con la proclamata massiccia presenza cinese nel porto del Pireo).
Ad un livello più “sottile”, ma senz’altro centrale per interpretare correttamente la situazione, dovremmo anche chiederci se i BRICS sono liberi o meno dall’influenza di determinate “lobby” che spadroneggiano in Occidente. Qualora tali “lobby” di tipo etnico, religioso ed occulto disponessero di ampi spazi di manovra a detrimento dei rappresentanti regolari delle tradizioni autoctone, si potrebbe affermare che anche la speranza nei BRICS è malriposta.
Un’ultima cosa va comunque rilevata. Da tutto questo discorso, che implica la ricerca di una “alternativa” o quantomeno un “contrappeso” al dominio (militare, finanziario, culturale ecc.) occidentale, vi è un grande assente: l’Europa. La quale, anzi, viene sic et simpliciter annessa all’Occidente stesso, dimostrando – come ho avuto modo di argomentare – che è il concetto stesso di “Europa” a dover esser messo in discussione.

5 – In numerosi articoli Lei descrive e sostiene la politica russa a difesa della famiglia naturale e contro la promozione dell’omosessualità. Crede che la posizione di Putin sia dettata solo da considerazioni etico-religiose, o che abbia anche risvolti politici?

Sono assolutamente fiducioso (le “certezze” non possiamo riporle nelle questioni “mondane”) che la dirigenza russa stia considerando il pericolo esiziale rappresentato dalla cosiddetta “ideologia di genere”, di cui ho disquisito – direttamente ed indirettamente – in varie occasioni. Per considerazioni di carattere generali sul problema rimando a: Un esempio di “soft power” occidentale: la propaganda omosessuale contro la Russia, mentre come riferimento bibliografico è consigliabile Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità”, di G. Marletta e E. Perucchietti.

Chi ha chiaro dove sta “il problema” non ha dubbi nel plaudire alle iniziative di Putin e del suo entourage. Non è un caso perciò che anche un sito cattolico dome “Effedieffe” comprenda bene la “fonte” da cui trae origine la linea seguita dalla Russia, a maggioranza cristiana ortodossa, in materia di “famiglia naturale”.
D’altra parte, viviamo in un’epoca nella quale la “linea di demarcazione” si sta definendo giorno dopo giorno: da una parte i fautori della dissoluzione, dall’altra quelli della fedeltà alla tradizione, o meglio a quel “deposito di fiducia” di cui parla esplicitamente il Corano e che Dio stesso ha posto nelle mani degli uomini affinché lo custodissero e non lo corrompessero.
Ci sta benissimo che nulla si possa contro una china rovinosa che ci condurrà verso gli abissi più bui, ma guai a chi porterà il suo contribuito alla corruzione di ciò che ci è stato affidato per riportarlo incorrotto al Suo legittimo proprietario.
Tutto ciò premesso, si capisce che i “risvolti politici” – rappresentando l’applicazione di principi d’ordine spirituale ad un preciso dominio – non possono che essere evidenti a chiunque abbia anche solo una sensibilità per questo piano limitato.

6 – Come vede il futuro delle famiglie italiane e delle giovani generazioni, in un paese ridotto allo sfascio economico e al declino culturale dalle politiche atlantiche?

Questa nazione andrebbe rifondata daccapo, da cima a fondo. Nulla è da “riformare”, in quanto tutto è tremendamente corrotto e distorto. Bisognerebbe cominciare dalla scuola, dall’asilo. Ma che dico, addirittura dal concepimento stesso dell’individuo!
Gli uomini dovrebbero fare gli uomini e le donne le donne. Lo Stato dovrebbe tornare ad essere la suprema istanza in politica. Altro che “federalismo” ed “autonomie”. Il lavoro non dovrebbe essere equiparato ad un “mercato delle vacche”, ma dovrebbe garantire stabilità e fiducia nell’avvenire. La “cultura” dovrebbe estrarre da ciascuno il meglio che ha dentro di sé. Gli italiani dovrebbero essere educati a sentirsi davvero “comunità nazionale”. La religione non dovrebbe essere un orpello ideologico, ma essere viva presenza nella vita delle persone.
Guardi, come comprende bene dal fatto che vado alla rinfusa, questa Nazione è in uno stato comatoso che ha bisogno solo di una sonora sveglia data da un Condottiero in grado di galvanizzare le energie latenti ma inespresse che potrebbero esserci. O, alle brutte, di una salutare catastrofe, dalla quale emergano poi esseri umani degni di questo nome.
Non si creda di venirne fuori con la “società civile” e le “buone” ed “educate maniere”. Nemmeno – come credono certi invasati della “rivoluzione” – con un “bagno di sangue” (le guerre civili non fanno mai bene a nessuno).

Il problema principale di questa Nazione italiana (oso ancora utilizzare un termine che presto verrà abolito a favore di “esseri umani nati su un suolo amministrativamente denominato Repubblica Italiana”) è la sua pavidità, la sua colpevole sottomissione ad un sistema di raggiri ed inganni impostoci settant’anni fa con la sconfitta militare e poi perfezionato fino all’odierno immondo spettacolo di buffoni e giullari che occupano ogni spazio di una vera Repubblica delle banane sulla quale insistono oltre cento basi ed installazioni militari Usa e Nato, per non parlare del capillare apparato d’istupidimento “made in Usa” che dalle università al “divertimento” condiziona in maniera irreparabile gli animi dei nostri connazionali.

L’intervista è stata condotta da Anacronista per conto di Controinformazione.info. Articolo originale

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LA LIBIA NEL CAOS

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Nel corso del 2011, quando le sponde meridionali del Mediterraneo furono teatro di eventi che hanno portato alla dissoluzione di alcuni regimi politici preesistenti, soprattutto in Nord Africa, in Libia solo l’intervento militare internazionale rese possibile l’estromissione dal potere del colonnello Gheddafi, dopo quarantuno anni: dapprima attraverso l’imposizione di un’interdizione di volo nello spazio aereo libico, in particolare a Bengasi, e successivamente attraverso l’operazione NATO “Odissea all’Alba”, che fornì sostegno militare ai ribelli.

 

LA LIBIA OGGI

La Libia post-Jamahiriya è fonte di grande instabilità. La caduta del regime di Gheddafi ha destabilizzato il paese, dove è in fase di ridefinizione il rapporto tra i diversi livelli identitari presenti: l’identità nazionale, l’appartenenza regionale e l’affiliazione clanico-tribale. Anche all’interno di tali identità sono presenti motivi di conflittualità, come dimostrano gli scontri tra diverse milizie o le pretese di autonomia da Tripoli da parte della Cirenaica. [1]
Il quartier generale delle Forze speciali dell’esercito libico a Bengasi è stato conquistato dai gruppi islamisti e caccia militari sorvolano la città, dove le milizie islamiche di Ansar al-Sharia hanno dichiarato l’istituzione di un “emirato islamico”. L’esito delle elezioni dello scorso 25 giugno, poi, non permette certo di rispondere al desiderio di stabilità politica e di pacificazione interna.
Sono questi gli elementi che fanno oggi della Libia una terra di nessuno, dove giornalmente governativi, milizie, islamisti e banditi si scambiano punti di vista a colpi di armi, attentati e sequestri.

 

EGITTO, ALGERIA E TUNISIA TEMONO LA POLVERIERA LIBICA

Quando Gheddafi venne estromesso dal potere e fu ucciso per mano delle forze eversive il 20 ottobre del 2011, forse non si pensava ad un simile destino per la Libia; o forse sì, dato che non era poi così difficile immaginarselo. “Riceviamo rapporti che indicano jihadisti libici e tunisini rientrare nei Paesi d’origine per creare filiali dell’ISIL (lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante) in Nord Africa”, affermò una fonte della sicurezza algerina al quotidiano “al-Qabar”. Il presidente egiziano Abdal Fattah al-Sisi, impegnato a tessere una complicata tela diplomatica per raggiungere il cessate il fuoco tra Israele ed Hamas sul confine orientale, si è recato in visita in Algeria al fine di sviluppare relazioni strategiche tra i due Paesi per arginare la minaccia islamista sul Nord Africa. “La Libia va verso la secessione di tre Stati: Bengasi, Tripoli e Fezzan, e il governo egiziano è decisamente contrario alla frammentazione di uno Stato alle porte del proprio paese”, ha affermato l’esperto di strategia Ahmad Abdal Hamid.
Le forze militari algerine, dal canto loro, hanno condotto numerose operazioni contro i campi di addestramento dei terroristi in Libia, grazie all’assistenza delle milizie di Zintan e della tribù dei Warfalla, che controllano la città di Bani Walid.
Anche la Tunisia ha impiegato il suo reggimento di elicotteri d’attacco dell’esercito contro gruppi terroristici a Ghardimau e nel governatorato di Jinduba. [2]

 

I PROTAGONISTI DEL DOPO GHEDDAFI

Il governo libico imposto dalla NATO non è riuscito ad esercitare la propria autorità sul territorio nazionale e la Cirenaica è già considerata indipendente. L’8 marzo i ribelli, per la prima volta, hanno rifornito una petroliera battente bandiera della Corea del Nord nel porto di Es Sider ed il governo di Tripoli non è stato in grado di impedire all’imbarcazione di raggiungere le acque internazionali.
Qualche giorno dopo, il Congresso Generale libico, ha sfiduciato il primo ministro Ali Zeidan ed ha affidato l’incarico al ministro della Difesa, Abdullah al-Thinni.
Ali Zeidan fugge in Germania attraverso Malta, mentre il procuratore generale diffondeva un mandato di arresto nei suoi confronti per appropriazione indebita. [3]
Il nuovo Primo ministro libico Abdullah al-Thinni si è a sua volta dimesso senza formare un governo, affermando di avere subito un attacco armato, mentre era in macchina con la sua famiglia: “Io non accetto che i libici si uccidano a vicenda per questo posto”, ha dichiarato il Primo ministro dimissionario. [4]
Il 14 maggio, quindi, il Parlamento libico si riunisce per eleggere il nuovo primo ministro: Ahmed Maiteeq, un uomo d’affari islamista del clan di Misurata, sostenuto da partiti islamisti, tra cui Al-Watan (che comprende capi di Al-Qaeda) ed i Fratelli Musulmani, è stato eletto al termine di una seduta parlamentare controversa.
Dopo un’interruzione di un’ora della copertura televisiva, Maiteeq Ahmed è risultato eletto con 121 voti. I suoi oppositori sostengono che la sessione era stata chiusa e molti membri del Parlamento avevano lasciato l’aula, ritenendo dunque non valida l’elezione. [5] La Corte Suprema libica ha poi annullato l’elezione ritenendola viziata da irregolarità e l’ex Primo Ministro dimissionario, Al-Thinni, ha riferito che avrebbe mantenuto la guida del Governo finché non sarebbe stata ristabilita una situazione di legalità. Nel frattempo il Congresso Nazionale Generale (CNG) ha approvato un atto d’accusa nei confronti dello stesso Abdullah Al-Thinni oltreché del suo predecessore Ali Zeidan per non aver governato al fine di assicurare la sicurezza del Paese e per questo ha dato mandato alla Banca Centrale di congelare i beni del governo. [6]
Ma l’incertezza e l’instabilità politica e sociale, hanno portato un altro protagonista alla ricerca della ribalta: Khalifa Haftar che ha esordito definendosi il “salvatore” della Libia dai gruppi integralisti islamici, organizzando un attacco contro il Parlamento di Tripoli e lanciando una campagna militare a Bengasi contro i gruppi islamici armati, come Ansar al-Sharia [7], definita “Operazione dignità”.
Haftar è un ex generale di 71 anni, proveniente dai ranghi dell’accademia militare di Bengasi, ha partecipato al colpo di stato del 1969 che portò al potere Muammar Gheddafi, per poi smarcarsene. Durante la guerra tra Libia e Ciad (1978-1987), Haftar viene fatto prigioniero dall’esercito di N’djamena ed è a questo punto che entrano in campo gli Stati Uniti: lo liberano con un’operazione dai contorni non chiari e gli concedono asilo politico. Negli Usa si unisce ai ranghi della diaspora libica e diviene un collaboratore della CIA. Fa ritorno a Bengasi nel marzo 2011 e viene nominato capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt), braccio politico della ribellione. Ai suoi ordini ci sono molti ufficiali del regime che hanno abbandonato Gheddafi, ma le autorità del “governo” di transizione lo considerano avido di potere e temono che punti ad instaurare una nuova dittatura militare.

 

I LIBICI DISERTANO IL VOTO

Gli ultimi tre anni di disordini hanno lasciato in eredità alla Libia pochissime ed inefficaci istituzioni, la mancanza di un vero e proprio esercito per imporre l’autorità dello Stato e disarmare ex combattenti e militanti fondamentalisti che ricorrono alla forza per imporre il proprio volere.
Approfittando dell’instabilità del Paese, il 25 maggio gli Stati Uniti hanno inviato 1000 marines della nave d’assalto anfibio USS Bataan presso le coste libiche, in vista dell’evacuazione dell’ambasciata statunitense. Nel frattempo Washington aveva suggerito ai suoi concittadini in Libia di “partire immediatamente“. Muhammad al-Zahawi, capo della milizia gihadista Ansar al-Sharia, per l’occasione ha ammonito contro qualsiasi interferenza degli Stati Uniti nella rivolta in Libia: “Ricordiamo all’America le sconfitte in Afghanistan, Iraq e Somalia; dovrebbe affrontare qualcosa di molto peggio in Libia. E’ stata l’America ad inviare Haftar ed a portare il Paese verso la guerra e lo spargimento di sangue“.
Il 25 giugno hanno avuto luogo le elezioni legislative, due anni dopo quelle che sono state definite le prime elezioni libere del CNG dopo la caduta di Muammar Gheddafi; in realtà, esse hanno condannato la Libia ad un perenne regime di transizione che ha acuito l’instabilità politica e l’impossibilità di esercitare l’autorità dello Stato su tutto il territorio. Le milizie fondamentaliste controllano diverse città nel Paese e contro di loro l’ex generale Haftar, emancipandosi dal controllo del governo, ha lanciato la propria campagna militare. In una situazione in cui nascono gruppi che cercano di imporre il proprio volere in misura uguale e contraria, l’Unione Europea ha sottolineato l’importanza di queste elezioni per uscire dal pantano in cui si trova il Paese. Ma solo 630.000 libici su 3,4 milioni si sono recati alle urne, con un’affluenza del 18,50%. L’81,5% dei cittadini libici, dunque, ha preferito non partecipare alle elezioni legislative.
Il 4 agosto si è insediata la nuova Camera dei rappresentanti a Tobruk , a causa delle violenze in corso a Bengasi che hanno imposto lo spostamento della sessione. Nel corso della prima seduta, avvenuta alla presenza di 158 deputati su 188 è stato eletto il nuovo presidente della Camera: Ageela Salah Issa Gwaider, di Guba nell’est del Paese.

 

TRAMPOLINO PER L’EUROPA

La situazione della Libia è il frutto del fallimento della NATO, ma soprattutto dell’Unione europea che nelle intenzioni avrebbe voluto garantire l’esito democratico di questa travagliata transizione libica, ma che si trova ad affrontare un esodo senza precedenti, una nuova tratta di uomini di cui la Libia rappresenta idealmente un “trampolino” per centinaia di migliaia di migranti provenienti da ogni parte dell’Africa e delle aeree del vicino Oriente tormentate dai conflitti, che in Libia si imbarcano su carrette della morte per attraversare il canale di Sicilia e raggiungere l’Europa. Nello specifico è l’Italia a dover sostenere lo sforzo maggiore nell’affrontare l’ondata migratoria, data la vicinanza alle coste libiche. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, in visita al Cairo ha recentemente affermato: “il 97% dell’immigrazione clandestina che arriva in Italia viene dalla Libia. Se vogliamo risolvere il problema dell’immigrazione, dobbiamo risolvere il problema della Libia. L’Italia porrà il problema alla Nato in occasione del prossimo vertice del 4-5 settembre. L’Onu deve mandare un inviato speciale”.

 

LE AMBASCIATE SI SVUOTANO

Il “grande progetto democratico” previsto per la Libia non sembra poter avere attuazione, poiché l’unico pluralismo evidente nel Paese è quello dei gruppi armati che non sembrano avere l’interesse o l’inclinazione a condurre lo scontro sul piano politico. L’intensificarsi delle violenze e degli attacchi tra milizie rivali vicino all’aeroporto della capitale ha portato all’evacuazione di molte rappresentanze diplomatiche: quella americana lo fa per la seconda volta, la prima avvenne in seguito all’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens, nel corso di un attacco alla sede diplomatica a Bengasi, nel 2012. Lo stesso hanno fatto Germania, Francia, Olanda, Portogallo, Canada, Bulgaria, Serbia, Arabia Saudita e Algeria. Il Foreign Office inglese ha diramato l’ordine a tutti i cittadini britannici di lasciare immediatamente la Libia e ha drasticamente ridotto il personale della propria ambasciata.
L’ambasciata italiana a Tripoli è una delle poche ad essere pienamente funzionante anche se l’Unità di crisi della Farnesina ha avviato il piano di rientro volontario dei nostri connazionali. Sulla situazione il ministro degli Esteri Federica Mogherini, indica due piani d’azione, uno interno e uno internazionale. Da una parte è necessario “ricondurre gli sforzi” nel quadro Onu, in quanto “riferimento internazionale che garantisce efficacia e imparzialità”, dall’altra il “passaggio fondamentale” è l’entrata in funzione del nuovo parlamento libico per consentire di sostituire al piano del confronto militare tra fazioni quello del dialogo politico.

 

LA QUESTIONE ENERGETICA

Intorno alla Libia c’è sempre più terra bruciata, tra le fazioni fuori controllo che si combattono dalla periferia di Tripoli fino a Bengasi e con i suoi depositi di carburante in fiamme che hanno portato il Paese ad un crescente isolamento.
Nei giorni scorsi l’Eni ha trasferito i suoi tecnici del giacimento nordoccidentale di Mellitah sulla piattaforma offshore di Bouri a 120 chilometri dalle coste libiche, segno che il livello di sicurezza nel paese è preoccupante. [8]
Secondo le statistiche del Middle East Economic Survey (MEES), la produzione nei primi mesi del 2014 si è attestata tra i 200 mila e i 500 mila barili al giorno, contro i circa 1,7 milioni di barili prodotti prima del conflitto del 2011.
Se la produzione dovesse proseguire a singhiozzo il governo dovrebbe attingere dalle proprie riserve e dai fondi sovrani per evitare una crisi fiscale. Le compagnie petrolifere, nelle ultime settimane hanno garantito l’estrazione del greggio solamente dai giacimenti off-shore , nelle acque libiche, come nel caso dell’italiana ENI che ha dichiarato un calo della produzione della compagnia di circa 270 mila barili giornalieri rispetto al periodo precedente alla rivoluzione. Altre compagnie internazionali, come la Shell hanno sospeso le attività a causa delle condizioni di sicurezza e dei risultati insoddisfacenti, o la BP che ha abbandonato una parte significativa del programma d’investimento da 20 miliardi di dollari. [9]

 

QUALE FUTURO PER LA LIBIA

La fine del regime di Gheddafi chiude un capitolo della storia della Libia durato quarant’anni e inaugura una stagione nuova, che nelle intenzioni a dir poco ingenue di alcuni si propone come fine ultimo l’instaurazione della democrazia liberale. Ma appare ovvio considerare le difficoltà che si frappongono alla realizzazione di un sistema democratico in un paese che possiede ben diversi requisiti culturali, politici e storici.
Una punto cruciale sul futuro della Libia riguarda il ruolo futuro delle potenze occidentali, che tanto peso hanno avuto nell’estromissione e nell’eliminazione di Gheddafi. Tra queste l’Italia è quella che forse più di altre dovrebbe avere l’interesse a contribuire alla stabilità della Libia ed al rafforzamento dell’autorità centrale, per ragioni storiche, geografiche e strategiche. L’Italia non può aggiungersi a quella schiera di stati che sembrano rassegnati alla frammentazione della Libia in una costellazione di fazioni e potentati.

 

NOTE

1)La Libia dopo Gheddafi, marzo-aprile 2012, Osservatorio di Politica Internazionale;
2) La situazione in Libia dal 20 maggio al 9 luglio 2014; 9 luglio 2014; Aurora- Bollettino d’informazione internazionalista;
3) Le Premier ministre libyen se réfugie en Allemagne; 18 marzo 2014; Réseau- Voltaire;
4) Le Premier ministre libyen démissionne avant de former un gouvernement; 14 Aprile 2014, Réseau Voltaire;
5) Coup d’État islamiste en Libye; 5 maggio 2014; Réseau Voltaire;
6) Libya Supreme Court rules over the governement’s legitimacy, 5 giugno 2014; Al-monitor;
7) Traducibili come “i partigiani della Sharia”, il gruppo è uno dei principali attori delle dinamiche politiche e strategiche nell’est libico; principalmente formato da un numero di milizie di estrazione islamista che hanno partecipato agli eventi del 2011, in particolare le brigate Abu Obayda bin al-Jarah; le brigate Malik e il gruppo dei martiri del 17 Febbraio. La prima volta che il nome del gruppo è però salito agli onori delle cronache è stato nel settembre 2012, quando Bengasi è stata scossa da un attacco terroristico contro il consolato americano che ha portato alla morte dell’ambasciatore americano in Libia. Il suo leader è Mohammad al-Zahawi, 46enne di Bengasi, che ha reiterato, in più occasioni, la volontà del gruppo di deporre le armi qualora la nuova costituzione garantisse l’applicazione della Sharia.
8) Chiudono le ambasciate, Libia allo sbando; ISPI online; 28 luglio 2014
9) Background-Libia: l’importanza del petrolio; ISPI; 25 giugno 2014

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L’UCRAINA NELLA VISIONE ALTERNATIVA DI JOHN J. MEARSHEIMER

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In un recente articolo apparso su Foreign Affairs, John J. Mearsheimer (1), docente di Politologia all’Università di Chicago, ha messo in guardia gli strateghi di Washington sulle conseguenze di un probabile ingresso nella NATO dell’Ucraina, il cui governo ha già aperto l’iter per l’adesione, programmando l’abrogazione della legge che sancisce la neutralità dai blocchi militari del paese.(2) A detta di Mearsheimer USA e UE dovrebbero rifiutare la richiesta di ingresso nella NATO e nell’UE, due dei passaggi del “triplice pacchetto” di politiche in vista dell’adesione al blocco occidentale, al fine di preservare la neutralità del paese e farne una “nuova Austria”, ispirandosi al ruolo che questa ebbe durante la guerra fredda, in modo da dare vita a una sorta di stato cuscinetto trai due blocchi, da preservarsi sovrano, che non ricada in nessuno dei due campi, né occidentale, né eurasiatico. Da fedele al modello “statalista”, altrimenti detto “realista”, egli è fiducioso nella supremazia degli stati e crede che la sovranità sia la chiave dell’equilibrio nel mondo globalizzato post-guerra fredda.

Secondo la visione di Mearsheimer, USA e UE dovrebbero operare, quindi, una clamorosa marcia indietro e, dopo aver deliberatamente provocato la crisi di governo in Ucraina, come ammette lo stesso analista, volta a installare un esecutivo filo-occidentale a Kiev, dismettere il piano di allargamento dell’Alleanza Atlantica e ridefinire inopinatamente lo status del paese in senso neutralistico. Ciò tuttavia richiederebbe una apertura di dialogo verso la Russia, anche perché non si capisce come azioni unilaterali da parte occidentale possano servire a ridisegnare il ruolo stesso di Kiev nel senso auspicato dall’autore.
La strategia della Casa Bianca va, purtroppo, nella direzione opposta, come dimostra l’inasprimento delle sanzioni alla Russia, che hanno contribuito ad aggravare la crisi diplomatica tuttora in atto e ben lungi dal risolversi in maniera indolore per tutti gli attori in campo.

La Russia viene definita dall’autore una “grande potenza declinante”, con una demografia stagnante e una economia con poco dinamismo, fattori che rendono il containment ai danni di Mosca irrilevante. Anche a livello militare, le “mediocri forze armate” della Federazione (e che assomiglierebbero molto vagamente ad una “moderna Wehrmacht”, alludendo alle analogie che vi sarebbero tra intervento russo in Ucraina e invasione nazista della Polonia nel 1939) avrebbero certo fallito nell’obiettivo di un’occupazione militare permanente del territorio dell’est ucraino, benché meno dell’intero paese.

Se la Russia è debole, non lo è però il suo leader: Mearsheimer ammette la caratura da “stratega di prima classe” di Putin e ben lungi dal dare credito alle parole presunte di Merkel in una conversazione telefonica con Obama, riportate dal New York Times, nella quale la Cancelliera avrebbe parlato dell’”irragionevolezza” del presidente russo,(3) affermazione smentita però dal Die Welt,(4) sostiene che non vi siano ragioni per ritenere insano di mente Putin. L’autore asserisce che, benché la Russia non sia stata all’altezza di procedere all’annessione dell’est ucraino con altrettanta rapidità con cui ha proceduto ad inglobare la Crimea, il che appare un chiaro fallimento strategico di Mosca, agli occhi di Mearsheimer tuttavia la risposta prudente degli strateghi del Cremlino al piano ostile dell’Occidente ha dimostrato le indubbie capacità politiche e diplomatiche del leader russo.

Una via d’uscita all’attuale stallo secondo Mearsheimer, dovrebbe contemplare un ritiro delle sanzioni da parte dell’Occidente, che non serviranno a far arretrare la Russia rispetto ai propri interessi strategici e che appaiono utili unicamente a indispettire gli alleati europei, una dismissione del piano di occidentalizzazione dell’Ucraina, con buona pace dei 5 miliardi di dollari spesi dagli Usa dal 1991 per aiutare il paese a raggiungere “il futuro che essa desidera”, nelle parole della responsabile statunitense per gli affari europei ed eurasiatici Victoria Nuland: in altre parole un ritorno allo “status quo ante”, ovvero alla condizione di sovranità precedente al colpo di stato del 22 febbraio scorso.

Tale autocritica è spia di una valutazione della possibilità di errori strategici nella questione ucraina e nel perseguimento di una volontà di netta rottura con la Russia. Non è chiaro infatti quanto utile possa essere perseguire un disegno di allargamento delle frontiere della NATO, in linea con la strategia di espansione avviata dall’amministrazione Clinton negli anni ’90, se ciò si dovesse ottenere a spese di un ritorno a un clima da “guerra fredda” e gli Stati Uniti dovessero esporsi, così come pare avvenire, al pericolo dell’abbraccio tra Mosca e Pechino, foriero di un partenariato strategico globale insieme a tutti i BRICS, capace di spezzare l’egemonia americana.

Non tutti a Washington sono convinti dell’efficacia della strategia di rottura netta con Mosca, con tutta evidenza; ciò appare tanto più curioso, quanto più una tale riflessione critica, contenuta nell’articolo del Foreign Affairs, proviene da uno dei teorizzatori del contenimento della Cina. Si chiede infatti Mearsheimer, come reagirebbero gli USA se la Repubblica Popolare, a capo di una considerevole alleanza militare, tentasse di includere il Canada o il Messico nella propria sfera di interessi? I leader russi post-sovietici, rincara la dose l’autore, avevano avvertito in più occasioni che non avrebbero tollerato un’espansione della NATO in Georgia e in Ucraina, un messaggio che la guerra del 2008 tra Russia e Georgia aveva reso ancora più chiaro. Come dunque stupirsi della reazione di Mosca al colpo di stato operato a Kiev a febbraio scorso?

L’invito ad un “appeasement” rivolto alla Russia lanciato da Mearsheimer si spiega, più che con una improbabile russofilia dell’autore, con la convinzione che in realtà la sfida principale agli USA provenga dalla Cina e non dalla Russia. Lo studioso, partendo dall’assunto della inconciliabilità tra espansione economica e contestuale ascesa geopolitica indolore della Cina, sostiene la tesi della impossibilità di una pacifica espansione cinese.(5) In un’intervista del 2012 Mearsheimer, a proposito della questione iraniana, si era pronunciato anche sull’utilità per gli USA di concedere la dotazione dell’atomica all’Iran come deterrente per il rischio di instabilità nella regione, sostenendo la tesi dell’arma atomica come “strumento di pace”. (6)

Quella dell’avallo allo sviluppo di arsenali atomici come strumento per istituire pesi e contrappesi tra superpotenze regionali e conseguire la stabilità geopolitica, è una vecchia tesi di Mearsheimer. A proposito dell’Ucraina, questi aveva già previsto nel 1993 in un articolo su Foreign Affairs che l’accesa rivalità tra Mosca e Kiev sarebbe esplosa a causa dell’insicurezza lungo le loro frontiere e aveva sostenuto che l’Ucraina, per prevenire tale prospettiva, avrebbe dovuto mantenere le riserve di armi atomiche dell’epoca sovietica. (7) Ciò nondimeno nel 1994 l’Ucraina avrebbe acconsentito a liberarsi dell’intero ex arsenale nucleare sovietico, un processo portato a termine entro il 1996, avviandosi a divenire un “trofeo conteso” tra i due blocchi di interesse, americano e russo.(8)

Se il rapporto russo-ucraino sta all’Europa orientale come quello franco-tedesco sta all’Europa occidentale, come aveva sostenuto John Morrison,(9) allora, secondo lo studioso di Chicago, è vitale recuperare il rapporto russo-americano ripristinando o favorendo lo sviluppo di un’Ucraina sovrana necessaria al mantenimento degli equilibri della regione. L’obiettivo dovrebbe essere quello, all’interno di una dinamica più ampia, di avvicinare i grandi attori regionali come la Russia e l’Iran nella prospettiva di un contenimento cinese, evitando il raccordo tra Mosca e Pechino, il vero ostacolo al controllo statunitense dell’Eurasia. Le tesi sostenute da Mearsheimer non sembrano avere tuttavia grande peso al momento a Washington.

NOTE
1 “Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault”, in Foreign Affairs, 31 agosto 2014. .
2 http://www.lastampa.it/2014/08/29/esteri/ucraina-la-russia-respinge-le-accuse-le-foto-della-nato-ridicolo-soldati-ribelli-ok-di-un-corridoio-umanitario-per-kiev-m4bbFw3caYwC0kKWUCaMnM/pagina.html
3 http://www.nytimes.com/2014/03/03/world/europe/pressure-rising-as-obama-works-to-rein-in-russia.html
4 http://www.welt.de/politik/deutschland/article125385606/Merkels-Drahtseilakt-zwischen-Putin-und-Obama.html
5 John J. Mearsheimer, “China’s Unpeaceful Rise”, in Current History, n. 105 (690), aprile 2006, pp. 160–162
6 http://www.pbs.org/newshour/bb/world-july-dec12-iran2_07-09/
7 John J. Mearsheimer, “The case for a Ukrainian nuclear deterrent”, in Foreign Affairs, n. 72, estate 1993, pp. 50-66.
8 Contrariamente alla visione statalista di Mearsheimer, Huntington sostenne l’improbabilità di uno scontro trai due paesi in virtù della loro sostanziale “comunanza di civiltà” (pur ammettendo, ma nondimeno sottovalutando, la spaccatura tra Ucraina orientale ortodossa e russofona e Ucraina occidentale uniate) e auspicò per tal ragione lo smantellamento dell’arsenale nucleare ucraino come segno di cooperazione trai due paesi. Cfr. S. Huntington, “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, Garzanti, Milano 2000, pp. 38-39.
9 Cit. in S. Huntington, op. cit., p. 242.

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UNA FOTOGRAFIA DELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI TURCHE

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La vittoria di Erdoḡan alle elezioni di agosto per la Presidenza della Repubblica (51,85 % dei voti contro il 38,43 % di İhsanoḡlu e il 9,72 % di Demirtaş) si presta a qualche valutazione in base alla ripartizione dei suffragi nelle varie provincie turche.

Analizzando i dati elettorali complessivi emerge cheIl candidato del CHP e del MHP, Ekmeleddin İhsanoḡlu, ha prevalso nella provincia interna di Eskişehir (con il 51, 89 % delle preferenze) e in gran parte di quelle situate lungo la costa mediterranea: Çanakkale (55,38 %), Balıkesir (49, 15 %), İzmir (58,77 %%), Aydın (56,11 %), Muḡla (63,50 %), Antalya (53,01 %), Mersin (54,58 %), Adana (50,39 %) e Hatay (51,96 %), nonché in quelle di Manisa (48,25 %) e di Denizli (49,63 %), poste sempre a ridosso della fascia mediterranea. Inoltre İhsanoḡlu si è affermato al primo posto nelle provincie europee: Edirne (64,87 %), Tekirdaḡ (57,36 %) e Kırklareli (67, 95 %).
Selahattin Demirtaş, candidato del BDP, si è imposto in 11 provincie situate all’est: Tunceli (51,74 %), Diyarbakır (64,07 %), Mardin (60,95 %), Batman (60,00 %), Siirt (54,03 %), Şırnak 83,17 %), Hakkari (81,59 %), Van (53,60 %), Muş (59,91 %), Aḡrı (59,68 %) e ǀḡdır (42,90 %).

Tayyıp Erdoḡan, candidato dell’AKP, ha prevalso in tutte le altre provincie, corrispondenti al grosso dell’Anatolia: İstanbul, che poi rivedremo in dettaglio, con il 50,17 % delle preferenze, e poi Adıyaman (69,35 %), Afyon (64,20 %), Aksaray (74, 05 %), Amasya (56,54 %), Ankara (51,32 %), Ardahan (41,07 %), Artvin (52,58 %), Bartın (57,51 %), Bayburt (80,27 %), Bilecik (50,90), Bingöl (65,11 %), Bitlis (52,06 %), Bolu (66,16 %), Burdur (54,00 %), Bursa (54,82 %), Çankırı (73,76 %), Çorum ( 63,94 %), Düzce (73,54 %), Elaziḡ (70,61 %), Erzincan (59,11 %), Erzurum (68,89 %), Gaziantep (60,47 %), Giresun (66,65 %), Gümüşane (75,07 %), ǀsparta (55,46 %), K.Maraş (71,63 %), Karabük (64,58 %), Karaman (66,24 %), Kars (42,62 %), Kastamonu (65,82 %), Kayseri (66,43 %), Kırıkkale (63,95 %), Kırşehir (52,82 %), Kilis (65,15 %), Kocaeli (58,58 %), Konya (74,62 %), Kütahya (69,32 %), Malatya (70,40 %), Nevşehir (64,40 %), Niḡde (58,96 %), Ordu (66,97 %), Osmaniye (48,59 %), Rize (80,57 %), Sakarya (69,06 %), Samsun (65,90 %), Sinop (61,16 %), Sivas (70,63 %), Şamlıurfa (68,60 %), Tokat (62,42 %), Trabzon (70,07 %), Uşak (50,52 %), Yalova (50,34 %), Yozgat (65,86 %), Zonguldak (52,97 %). Erdoḡan si è imposto anche fra i residenti all’estero (62,66 %).

Per quanto riguarda İstanbul, ove Erdoḡan ha conseguito il 50,17 % dei voti, İshanoḡlu il 40,68 % e Demirtaş il 9,15 % (in pratica percentuali molto simili a quelle complessive nazionali), il candidato dell’AKP ha prevalso in gran parte della zona asiatica (hanno fatto eccezione Maltepe, Kadiköy, Ataşehir e Kartal) mentre nella zona al di qua del Bosforo vi è un sostanziale equilibrio, con i quartieri più residenziali e modernamente commerciali (Beşiktaş, Şişli, Sarıyer) a favore di İhsanoḡlu e quelli più tradizionali per Erdoḡan.

Da quanto riportato si può trarre qualche considerazione:
– Mantenendo sostanzialmente il profilo e la ripartizione per provincia delle elezioni amministrative di marzo, le prime presidenziali a suffragio universale hanno confermato che la ragione principale e più sentita di voto risiede nel diverso modello proposto; una Turchia profonda e più legata alla cultura tradizionale e islamica (che ha vinto) e una Turchia più “moderna” e ricettiva dell’influenza occidentale (che ha indubbiamente i suoi capisaldi nelle aree più turistizzate e legate a una imprenditorialità di tipo capitalistico quali quelle della costa mediterranea, nonché in un certo tipo di intellettualismo “laico” e aperturista presente nei quartieri istanbulioti gravitanti su piazza Taksim);

– Scarso peso sembra avere avuto la componente “politica estera” , anche se la vittoria dell’opposizione nell’Hatay (la provincia a ridosso del territorio Siriano) – in controtendenza rispetto al risultato di marzo, quando si era imposto l’AKP – segnala il malessere della popolazione locale, di fatto abbandonata dal governo al caos più completo; un sondaggio mondiale recente sul grado di avversione nei confronti degli Stati Uniti segnala comunque la Turchia al terzo posto;

– Permane una forte consistenza identitaria curda, impostasi largamente a est (e sono state conquistate, rispetto a marzo, anche Mardin e ǀḡdır) con il voto a Demirtaş.

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PROFUGHI E RANCORI NELL’UCRAINA (FORSE) IN PACIFICAZIONE

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Uno degli aspetti più drammatici ma meno dibattuti della crisi ucraina è l’abnorme flusso di rifugiati dalle zone di crisi verso la Russia e le altre regioni dell’Ucraina. Alla fine di giugno, secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, circa centodiecimila persone erano fuggite dal Donbass per rifugiarsi in territorio russo, mentre altre 42.000 erano scappate verso ovest (1). Il 2 settembre, complici anche l’offensiva delle truppe di Kiev e la successiva controffensiva dei novorussi, il numero dei rifugiati interni era salito a 260.000, mentre quello di coloro che hanno scelto la Russia aveva raggiunto quota 814.000 (2). La Crimea da qualche mese tornata sotto il controllo russo, ha perso nel frattempo poco più di 14.000 persone, perlopiù Tatari e filoucraini (3). Il numero dei rifugiati, nel complesso, supera il milione: una cifra in Europa inaudita dai tempi della Guerra in Bosnia, che tra il 1992 e il 1995 aveva provocato la fuga di 2,2 milioni di persone (4), e quello in Bosnia è stato il conflitto che ha prodotto il maggior numero di rifugiati dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
La drammaticità della situazione è quindi fuori discussione, e gli effetti della crisi in corso rimarranno visibili anche quando la Guerra nel Donbass apparterrà alla storia. La geografia umana del Donbass sarà irrimediabilmente cambiata, e in caso di una vittoria dei lealisti alla regione potrebbe toccare un fato simile a quello della Slavjansk “liberata”, dove si è verificato una sorta di scambio di popolazione non ufficiale tra abitanti originari, molti dei quali fuggiti all’estero o in altre città ucraine, e nuovi residenti, molti dei quali provenienti dalle regioni occidentali (5). Allo stesso modo, qualora i ribelli dovessero tornare all’offensiva e avere la meglio, è alquanto probabile che ci troveremo di fronte ad una resa dei conti nei confronti dei governativi e dei gruppi paramilitari, come il Battaglione Azov e il Battaglione Donbass, che in questi mesi hanno accompagnato le forze lealiste, mentre nel caso (attualmente più probabile) di una sospensione del conflitto con l’istituzione di una qualche Repubblica del Donbass formalmente appartenente all’Ucraina ma nella prassi più vicina a Mosca che non a Kiev la rivalità tra il Donbass e il resto del Paese tenderebbe a cristallizzarsi. Ciò che oggi appare certo è che, nei prossimi anni, il limes non sarà tra Ucraina e Russia, ma passerà all’interno dell’Ucraina stessa. Ma la situazione potenzialmente più esplosiva riguarda proprio la Russia, non solo perché la maggioranza dei profughi ucraini ha scelto la Grande Madre, ma anche perché i rifugiati, molti dei quali hanno vissuto sulla loro pelle gli orrori della guerra, potrebbero diventare attori politici di primo piano nella Russia di domani, sia come protagonisti sia soprattutto come gruppo di pressione.
Il rischio che il fuoco del risorto nazionalismo russo si trasformi in un incendio di massicce proporzioni è tutt’altro che assente. Il contesto in cui si sta svolgendo la Guerra nel Donbass non è certamente di aiuto: quello attualmente in corso tra la Russia e l’Occidente non è una semplice contesa tra grandi potenze, bensì un vero e proprio scontro di civiltà, e l’Ucraina è solo il principale di una serie di contenziosi e di querelles, tra le quali non va sottaciuta la sensazione di trovarsi sul lato sbagliato di quella politica dei “due pesi e due misure” troppo spesso attuata dalle potenze occidentali. Il risultato è che i sentimenti nazionalisti e antiamericani hanno ormai raggiunto un livello che, solo pochi anni fa, sembrava impensabile. Secondo i dati del Pew Research Center, infatti, se ancora l’anno scorso il 51% della popolazione russa dichiarava di avere un’opinione positiva degli Stati Uniti, nel maggio del 2014 il 71% ne dichiarava una negativa (6). Negli ultimi mesi il livello delle tensioni ha vissuto un ulteriore aumento, con le calunnie di Obama contro la Russia sull’abbattimento del volo MH17 nei cieli del Donbass (tuttora avvolto nel mistero, ma di cui inizialmente furono accusati i novorussi) e la guerra delle sanzioni tra la Russia e l’Occidente, e l’arrivo dei profughi, con i loro vissuti e le loro recriminazioni, rischia di rendere la situazione in Russia ancora più incandescente.
I principali destinatari dei rancori dei profughi saranno, con ogni probabilità, l’attuale governo ucraino e i suoi sostenitori occidentali, ma è difficile che questi si dimentichino la differenza tra la determinazione del Cremlino nel sostegno delle rivendicazioni della Crimea e le titubanze mostrate dallo stesso nel Donbass. Quando nella penisola del Mar Nero sono scoppiati i primi moti filorussi, dopotutto, la Russia ha preso quasi subito le redini della situazione, prima dispiegando truppe senza insegne (i cosiddetti “omini verdi”) e poi sostenendo l’organizzazione di un referendum per la riunificazione della regione alla Russia. Il possesso russo della Crimea, con le sue basi militari, la sua storia e la sua popolazione in gran parte filorussa, è un punto su cui Putin non intende transigere, ed è alquanto improbabile che un suo successore, anche filoccidentale, possa mostrarsi più accomodante, salvo qualora non volesse passare alla storia come un traditore. Il ritorno della penisola all’Ucraina, di fatto, è possibile soltanto qualora la Russia fosse costretta a chiedere una resa incondizionata, come accadde a Germania e Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma ciò potrebbe accadere soltanto qualora l’Occidente fosse disposto a intervenire militarmente contro l’Ucraina, e uno scontro armato tra Russia e Occidente, anche qualora non implicasse l’uso di armi atomiche, è indesiderabile per entrambe le parti.
Il sostegno di Mosca alle autoproclamatesi Repubbliche Popolari di Doneck e di Lugansk, invece, è stato piuttosto esitante, mai del tutto convinto. Certamente non si può negare che i separatisti del Donbass abbiano beneficiato dell’afflusso di armi e volontari dalla Russia, sia da organizzazioni come Dobrovolec.org (7) e movimenti nazionalisti come il Movimento Imperiale Russo (8), sia, presumibilmente, direttamente dal Cremlino. Ed è stato lo stesso Putin a rispolverare per primo il toponimo “Novorossija”, che alla fine del Settecento indicava i territori della Crimea e dell’Ucraina meridionale appena strappati all’Impero Ottomano e ai suoi vassalli, quando le tensioni nel Donbass non sembravano destinate a sfociare in una vera e propria guerra. Eppure la Russia ha sempre mantenuto una certa distanza nei confronti dei ribelli novorussi. La prospettiva di un’annessione del Donbass alla Federazione Russa non è stata mai presa in considerazione, malgrado la stessa non avrebbe mancato di incontrare il sostegno della popolazione locale, né la dichiarazione di indipendenza della Novorossija ha trovato il sostegno di Mosca, che nel corso del conflitto si è quasi sempre mantenuta fedele alla linea della concessione di una forte autonomia alla regione ma senza violare nuovamente l’integrità territoriale dell’Ucraina.
E’probabile che, specie all’inizio, Putin sperava in una rapida conclusione della crisi, tale da non rendere necessario un suo intervento oltre il dovuto, così come è probabile che, mantenendo un basso profilo, Putin abbia cercato di non intimorire i suoi vicini di casa, in primis il Kazakistan, oltre che di evitare quanto possibile le ritorsioni occidentali. A tutto ciò si aggiungono considerazioni di tipo strategico: qualora il Donbass dovesse separarsi da Kiev, infatti, la probabilità di un ritorno di un filorusso alla Bankova, già ridottasi dopo la perdita della Crimea, diventerebbe praticamente nulla, mentre, parallelamente, si farebbero più concrete le prospettive di un’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea e alla NATO. Paradossalmente, quindi, l’indipendenza del Donbass o il suo passaggio alla Russia finirebbe per convenire più all’Ucraina – almeno qualora questa volesse seriamente intraprendere il cammino euroatlantico – che non alla Russia, che si vedrebbe tagliato il cordone ombelicale che la lega a Kiev e privata delle province ucraine tradizionalmente filorusse di Char’kov, Dnepropetrovsk e Odessa. La prudenza di Putin è quanto mai comprensibile, e non c’è da stupirsi se i rapporti tra questi e i novorussi non sono sempre stati idilliaci, e le accuse di codardia non si sono fatte attendere (9). Analoghe critiche sono pervenute anche da una parte dell’opinione pubblica russa. “In Occidente”, scrive il britannico Spectator, “siamo abituati a vedere Putin presentato come un nazionalista pericoloso e avventurista. Ma per Strelkov (il comandante delle truppe della Repubblica Popolare di Doneck, nda), e per i milioni di Russi che sono diventati suoi ammiratori, Putin non è abbastanza nazionalista” (10).
Nelle ultime giornate la Russia e l’Occidente si sono scambiati minacce e accuse pesanti, ma nel contempo si sono fatte più concrete le prospettive di pace, con Putin e Porošenko che hanno raggiunto un accordo per una tregua permanente e uno scambio di prigionieri. Il tutto mentre i rifugiati iniziano a riprendere in massa la strada del ritorno (11). Ma per Putin e Porošenko si apre ora la sfida più difficile: quella con l’opinione pubblica dei loro Paesi. Cinque mesi di guerra, infatti, hanno sostanzialmente inasprito i rapporti tra l’Ucraina da un lato e la Russia e le regioni filorusse di Kiev dall’altro. La retorica di guerra è stata pressante da entrambi i lati, come dimostrato dai frequenti riferimenti ai “fascisti” di Kiev da un lato e ai “terroristi” di “Putler” dall’altro. Placare, o perlomeno isolare, le frange ucraine più oltranziste potrebbe non essere molto difficile, non fosse altro per la depressione economica in cui il Paese è stato ricacciato da quasi un anno di tensioni interne e internazionali (secondo il Fondo Monetario Internazionale, qualora nelle prossime settimane le tensioni dovessero effettivamente rientrare, il calo del PIL per il 2014 sarebbe pari al 6,5%, mentre nel 2015 l’economia crescerà soltanto dell’1% (12) e per l’atteggiamento dei leaders occidentali, poco propensi ad impegnarsi in una guerra da cui difficilmente uscirebbero vincitori. Per la Russia, invece, la questione si fa più complessa. Le ultime settimane, infatti, hanno visto l’esercito novorusso passare all’offensiva, e al momento dell’inizio della tregua era in procinto di conquistare l’importante città portuale di Mariupol. Il tempo sarà probabilmente a favore di Putin: una volta raggiunta la pace, infatti, il sipario sull’Ucraina calerà e l’Occidente, dopo aver tirato un sospiro di sollievo, sarà distratto da altre questioni per esso più vitali, Stato Islamico in primis. La Russia, nel frattempo, avrà rafforzato i suoi rapporti con la Cina ed altri Paesi non occidentali, e ciò la renderà inevitabilmente più impermeabile alle pressioni dell’Occidente. L’Ucraina, così, tornerà lentamente ma inesorabilmente a gravitare nell’orbita della Russia, sebbene (forse) mantenendo una certa distanza, e già oggi non è da escludere che Putin, dopo aver operato per mesi da destabilizzatore, si stia accordando – o magari si sia già accordato – con Porošenko per la concessione di aiuti sostanziali simili a quelli concessi dal Presidente russo a Janukovič nel dicembre scorso. Ossia, almeno ufficialmente, senza contropartita se si esclude la loro restituzione una volta scaduti i termini del prestito.
Ma, nell’immediato, resta da placare la prevedibile rabbia dei separatisti che, pur avendo accettato la tregua nel Donbass, continuano a rivendicare l’indipendenza e a rifiutare l’idea di diventare un’entità federale dell’Ucraina (13). Un grattacapo non di poco conto per Putin, che nei prossimi mesi potrebbe dover tenere testa a una situazione simile a quella che ha dovuto affrontare la Francia durante la fase finale della Guerra in Algeria e negli anni immediatamente seguenti, quando alcuni Pieds-Noirs (14), delusi dall’atteggiamento della madrepatria, crearono la famigerata OAS (Organizzazione Armata Segreta), responsabile di una serie di attentati contro obiettivi algerini e persino di un tentativo di assassinare Charles de Gaulle. E, in tutto questo, i profughi – molti dei quali destinati a rimanere in Russia – potranno avere un duplice ruolo. La possibilità di fare ritorno nelle proprie terre d’origine, anche semplicemente in vacanza, dovrebbe fungere da sprone per assumere un ruolo da pacieri. Ma, allo stesso modo, i rancori accumulati potrebbero aggiungere benzina sul fuoco del nazionalismo, specie nell’eventualità in cui Putin dovesse accettare un compromesso al ribasso. I precedenti storici non mancano, e vanno dai già menzionati Pieds-Noirs alle diaspore ucraine negli Stati Uniti e, in particolare, in Canada, composte in prevalenza da esuli della Guerra Civile russa e da Ucraini occidentali fuggiti dalla loro terra natia dopo la conquista sovietica seguita alla Seconda Guerra Mondiale e che negli ultimi mesi hanno avuto un ruolo tutt’altro che marginale nel promuovere la linea dura contro Mosca (15). I prossimi mesi, sotto questo punto di vista, avranno un’importanza cruciale.

*Giuseppe Cappelluti, laureato in Lingue Moderne per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo, ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Mediazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Bari. Ha trascorso un periodo di studio di sei mesi presso l’Università di Tartu (Estonia) nell’ambito del programma Erasmus. Alcuni suoi contributi sono stati pubblicati dal Fondo Gorčakov (http://gorchakovfund.ru/).

NOTE
1. http://www.unhcr.org/53ad57099.html
2. http://www.unhcr.org/540590ae9.html
3. http://unhcr.org.ua/en/2011-08-26-06-58-56/news-archive/1244-internal-displacement-map
4. http://www.unhcr.org/4bbb422512.html
5. http://antifashist.com/item/zhiteli-slavyanska-ischezli-gorod-zaselyaetsya-vyhodcami-iz-zapadnoj-ukrainy.html#ixzz39hUoJeiV
6. http://www.pewglobal.org/2014/05/08/chapter-3-russia-public-backs-putin-crimeas-secession/
7. http://dobrovolec.org/stat-dobrovoltsem/
8. http://www.rusimperia.info/news/id20000.html
9. http://time.com/2969586/vladimir-putin-russia-ukraine-rebels/
10. http://www.spectator.co.uk/features/9298982/the-frightening-face-of-russias-future/
11. http://ria.ru/world/20140906/1023043873.html
12. http://www.ft.com/intl/cms/s/0/51a7c518-32b1-11e4-a5a2-00144feabdc0.html#axzz3CZi11IaV
13. http://www.washingtonpost.com/world/shelling-rocks-outskirts-of-mariupol-as-talks-to-end-ukraine-conflict-due-to-begin/2014/09/05/5601eade-a8a3-44f8-8203-fc1ab352002e_story.html
14. I Pieds-Noirs erano i coloni francesi ed europei in Algeria.
15. http://www.canada.com/Ukrainians+Canada+could+game+changers+federal+election/9578956/story.html

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