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Channel: Jóhanna Sigurðardóttir – Pagina 13 – eurasia-rivista.org
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L’AUT-AUT DELLA MOLDAVIA E IL FATTORE TRANSNISTRIA

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Se l’Unione Europea chiama la Moldavia all’interno della sua comunità politico-economica, gli scenari lungo il confine russo-ucraino potrebbero spingere definitivamente la Repubblica Moldava di Pridnestrov’e verso Mosca.
La vicenda sembra non più essere sottovalutata neanche dal Governo centrale di Chişinău che, soprattutto in politica estera, ha varato scelte di un’ importanza geopolitica e strategica non indifferente rispetto ai “due blocchi” oggi contrapposti.

A poco più di anno dalla decisione presa attraverso lo strumento referendario dalla popolazione di Crimea, nonostante il controllo amministrativo della regione rimanga giuridicamente conteso tra la Federazione Russa e l’Ucraina, il pericolo di un totale contagio proveniente soprattutto dalle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Doneck è palese al neoeletto governo del Primo Ministro Iurie Leancă.

Dopo aver scongiurato un nuovo ricongiungimento alla Romania, argomento in realtà ancora vivo negli ambienti diplomatici più conservatori di Bucarest, e dopo aver perso nel corso del Novecento l’attuale parte ucraina della Bessarabia e quella della Bucovina del Nord, la nuova sfida per la Moldavia rimane quella di non vedere ridotta ulteriormente la propria sovranità territoriale alla luce delle scelte sostenute in campo europeo.
L’avvicinamento a Bruxelles, sancito dall’ingresso nell’area Schengen e dalla firma dell’Accordo di Associazione in ambito commerciale, ha conseguentemente condotto la Russia ad intraprendere pesanti restrizioni varando un embargo di tutti i prodotti agricoli moldavi.
Inoltre, il continuo ostracismo moldavo nei confronti dei mezzi di informazione russi presenti nel Paese, palese nei recenti casi dei giornalisti Dmitry Kiselev e Andrei Kondrashov, hanno spinto il Cremlino a definire le decisioni di Chişinău lesive dei diritti umani e negativamente in linea con le posizioni ucraine e filo-occidentali di Poroshenko.
Come affermato dal politologo, nonché abitante della Transnistria, Andrey Safonov, i rapporti tra le varie entità statali riconosciute de iure e de facto all’interno dei “Balcani orientali” potrebbero divenire pericolose per la Moldavia.
Se il conflitto russo-ucraino condurrà Kiev ad accettare una qualsiasi intesa politica con Bucarest, nel vicendevole tentativo di ripristinare nuovi rapporti con le rispettive comunità minoritarie nel territorio moldavo, Chişinău paleserebbe tutta la sua fragilità politica non riuscendo ad autorappresentarsi come terza forza all’interno della micro-regione.
Quindi, nonostante l’impegno di integrazione voluto da Bruxelles e l’apertura delle porte del mercato unico europeo, non è solo il risentimento russo l’unico fattore descrittivo dell’attuale aut-aut geopolitico a cui la Moldavia è chiamata a rispondere.

A differenza delle rosee aspettative mostrate dai burocrati dell’Unione Europea, le ultime elezioni hanno ulteriormente confermato quel fardello storico-culturale che la Moldavia sembra non riuscire ad abbandonare.
Con una società profondamente spaccata fra quella popolazione contadina che guarda ad oriente spinta dalla lunga tradizione sovietica, e chi invece vorrebbe virare verso più salde relazioni con l’Occidente poiché spaventato proprio dalla scomoda potenza russa, la nuova compagine di governo è il risultato della paura di un popolo intimorito molto più dal conflitto in Ucraina e dal riacuirsi dell’escalation di violenza in Transnistria che dalla decennale crisi istituzionale.
La presenza dell’esercito russo a Tiraspol, capitale e centro nevralgico della de facto Repubblica Moldava di Pridnestrov’e, continua a spaventare quei cittadini andati alle urne proprio perché intimoriti dai separatisti presenti nel Paese.

Ciò che accade a pochi chilometri dalla capitale moldava, appena al di là del fiume Nistro, potrebbe giocare un ruolo fondamentale all’interno della politica nazionale.
Se la nuova maggioranza pro-Ue sembra non rischiare nessuna crisi politica al suo interno, poiché composta dai maggiori partiti del Paese e dal Partito Comunista moldavo, è l’ala socialista che spaventa non poco le istituzioni di Chişinău.
Il Partito dei Socialisti rimane infatti l’unica forza dichiaratamente filo-russa e anti-europeista, conscio di aver perso l’occasione di ribaltare l’esito delle urne a causa dell’astensionismo degli abitanti della Transnistria. Nonostante il rapporto comunisti-socialisti rimanga “dialettico”, sono proprio le posizioni prese in politica estera che dividono i due maggiori partiti della sinistra moldava.
Se il Partito Comunista ha sempre mantenuto una politica volta alla crescita nazionale, la tradizione sovietica presente nel Paese ha spinto già da un paio di anni il Partito dei Socialisti ad inaugurare una linea economica libera dai vincoli occidentali.
Oltre all’astensionismo della regione della Transinistria, la Moldavia è interessata dal nuovo fenomeno del patriottismo filo-russo capace di superare gli storici steccati ideologici all’interno dell’ormai ex territorio sovietico. Uno dei fenomeni più interessanti riguarda la crescita della formazione “Patria”, esclusa dai giochi elettorali per presunti finanziamenti esteri che in Moldavia sono giuridicamente riconosciuti illeciti. Leader nella nuova formazione è l’uomo d’affari Renato Usatîi, moldavo ma cittadino russo, fermo sostenitore dell’Unione Doganale Euroasiatica sancita da Vladimir Putin con Bielorussia, Kazakistan e Armenia. Contraria all’ideologia liberal-unionista romena, ma anche contro l’avvicinamento seppur economico-commerciale all’Unione Europea, “Patria” sembra posizionarsi sulla scia del Partito dei Socialisti.

In realtà, ancora una volta nella regione balcanica sono proprio le vecchie scelte della comunità internazionale e dell’Unione Europea che sembrano ritorcersi contro l’ordine costituito dalla diplomazia occidentale.
La Transnistria oggi potrebbe essere spinta versa la definitiva indipendenza proprio dalla decisioni prese nel 2011 a Vienna sotto la guida dell’Osce e del gruppo dei 5+2. Le istituzioni di Chișinău insieme ai separatisti di Tiraspol, ai diplomatici russi, ucraini, statunitensi ed europei, vararono il miglioramento di infrastrutture come la linea ferroviaria che collega la capitale moldava ad Odessa, nonché il ripristino delle linee di comunicazione tra la Transnistria e le due parti del fiume Dnestr. Inoltre, nessuna sanzione fu intrapresa né contro la presenza dell’esercito russo in Transnistria né per la fabbrica di munizioni nella municipalità di Tighina.
La regione che aveva rappresentato la zona cuscinetto come argine alla stessa guerra interna, oggi con la presenza di quasi ottomila soldati russi e delle brigate di fanteria di Tiraspol, Bender, Rîbniţa e Dubăsari si è trasformata nella prima preoccupazione per la Moldavia e non solo per essa.

Francesco Trupia

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LE APPLICAZIONI DELLA TECNICA BIOMETRICA NELL’INTELLIGENCE

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L’identificazione di John il jihadista è il prodotto ottenuto dal connubio fra tecnologia ed intelligence. Un successo raggiunto dalle indagini criminologiche classiche dell’FBI, ed il Criminal Justice Information Service, in particolare del Centro Divisione Biometrica. È una banca dati dove vengono immagazzinate le immagini di volti, voci, impronte digitali ed altro, registrate dal Next Generation Identification dell’FBI. È un servizio interoperabile sia con l’Automated Biometric Identification System militare, quanto con quello della Sicurezza Nazionale. La minaccia asimmetrica dell’eversione, ha indotto gli analisti strategici e di intelligence dei maggiori “attori” occidentali, a preconizzare una età del terrorismo, adeguata al mondo globalizzato ed iperconnesso. Questo perché si sta verificando un affinamento delle tecniche eversive, dei nuovi strumenti per attuarle ed infine dell’imprevedibilità degli obiettivi da colpire. Quello che rimane invariato è lo scopo manifesto dei terroristi: creare il timore collettivo abbattendo i confini della sicurezza individuale, porre in discussione le capacità dello Stato Sovrano di garantire l’incolumità dei propri cittadini e sminuire l’efficacia delle Forze dell’Ordine. Dunque il fallimento delle Istituzioni a cui si contrappone l’efficienza e l’organizzazione eversiva. Questo ha ingenerato una contestuale revisione delle tecniche di tutela sociale. Una metodologia di contrasto alla strategia del terrore è nell’utilizzare i dati biometrici, ossia pensare alle immagini come una risorsa per catturare la realtà ed ingenerare un deterrente all’eversione. Per ottenere la maggiore accuratezza possibile è necessario fondere alla biometria le ricerche scientifiche, la raccolta informazioni (Humint) e l’intelligenza artificiale. Un sistema che genera dal necessario ripensamento delle azioni repressive e contestualmente delle metodologie per la tutela dei cittadini a fronte dell’evoluzione globale del crimine. La biometria amalgama scienza e tecnologia applicata ed è destinata a stabilire come le caratteristiche fisiche, uniche per ciascun individuo, possano trasformarsi in uno strumento identificativo. La struttura del corpo umano solo apparentemente è uguale, ma in realtà la voce, il viso, gli atteggiamenti, la grafia, l’iride e le impronte digitali sono una uniche per ogni essere umano. Con la biometria queste peculiarità possono essere rilevate e classificate per poi essere il mezzo per l’identificazione. Dunque, la biometria si tramuta in biologia quantitativa, consentendo di stabilire la relazione fra le osservazioni e le descrizioni per l’assunzione dei principi teorici atte ad interpretarle. Le caratteristiche di un singolo essere umano, rilevate ed immagazzinate, non possono prescindere da precisi parametri: devono essere costanti nel tempo; osservate in condizioni normali; distintive per ognuno degli investigati; il grado di affidabilità deve essere elevato; non devono violare la privacy della persona. Di fatto, il peso, la struttura fisica, il colore degli occhi e dei capelli, non soddisfano i criteri di ricerca biometrici. L’impronta digitale è uno dei sistemi più datati in uso alle Forze dell’Ordine, ma alcune variabili come le escoriazioni, l’errato posizionamento delle dita sul sensore di rilevamento, variazioni di illuminazione e temperatura costringono gli investigatori ad adottare la regola di: “due caratteristiche biometriche coincidono”, dunque due o più criteri di ricerca devono giungere ad un unico risultato. Il riconoscimento facciale soddisfa tale processo, in quanto vi sono rilevabili le caratteristiche olistiche, dove ogni tratto è peculiarità dell’intero volto. Le immagini dell’individuo oggetto di indagine, sono tratte da scatti fotografici o video. Laddove quest’ultimo sia stato ripreso in luoghi affollati, il database riconosce uno o più volti immagazzinati, segmenta la scena in disordine per focalizzarli meglio ed infine estrapola le caratteristiche della regione facciale. L’Analisi in componenti principali (PCA) interpreta il viso come un punto in uno spazio n-dimensionato, lo spazio delle immagini, e la proietta in un nuovo spazio con l’ausilio di una trasformazione lineare che tende a massimizzare la cosiddetta variazione delle facce. In pratica il sistema individua e memorizza i tratti discriminanti del volto, li memorizza e li confronta con altri fino ad esprimere un giudizio di somiglianza. Il Local Component Analysys è un altro ausilio per gli investigatori ed è in grado di effettuare un riconoscimento automatico indipendentemente dalle condizioni della scena ripresa e della faccia. Gli investigatori biometrici, si concentrano principalmente sulla topografia dell’iride: l’iride è una fonte di informazioni che si diramano all’intero organismo, compresi gli aspetti psichici, patologici ed ereditari. Pertanto, disporre dei dati di un consanguineo dell’investigato, vuol significare possedere anche quelli dell’inquisito. Tale indagine consente di delineare un quadro completo del soggetto esaminato: caratteristiche e condizioni generali quali personalità, difese immunitarie, livello di stress, patologie in atto e pregresse. L’iride è lo specchio dell’individuo con tutte le sue differenze e singolarità, per questo è il metodo di analisi più accreditato fra gli investigatori. La biometria, dunque, consente l’identificazione di un quadro ben definito che poi viene commutato in un codice; in tal modo i confronti fra i dati immagazzinati e quelli rilevati successivamente avverranno tra numeri piuttosto che tra immagini, con il risultato di velocizzare l’indagine. Il codice è in un iperspazio probabilistico a dimensioni non intere, e metriche non euclidee dall’elevata complessità, così come la possibilità di rilevare velocemente le identificazioni su database molto grandi. Questo descrive l’impronta biometrica di un singolo individuo come un punto in uno spazio di probabilità. I sistemi biometrici hanno la peculiarità di poter riconoscere un essere umano, attraverso la connotazione facciale, l’analisi della gestualità e le azioni, anche in ambienti ad alta densità di popolazione. Per ottenere il record biometrico di un sospetto, è necessario, però, ricorrere ai vecchi metodi investigativi: è fondamentale la raccolta di informazioni relative ad impronte vocali, abitudini, parentele, amicizie, luoghi frequentati ed altro ancora del sospettato, per poi confrontarle con le immagini del soggetto indagato, sino a trovarne le corrispondenze. Esattamente come è acceduto per John il jihadista.

L’intelligence è comunemente riferita a quella branca delle scienze strategiche che analizza le interazioni dei soggetti con cui si è costretti a relazionarsi. Le metodologie atte a reperire informazioni sugli avversari sono molteplici, da quelle tecnologiche come la Sigint, Imint e Masint, alle Osint, che utilizza le fonti aperte, ossia gli organi di stampa, sino alla Humint, Human Intelligence. Quest’ultima è la riutilizzazione di un processo di acquisizione dati in uso quando la tecnologia non era molto avanzata, ma paradossalmente le evoluzioni degli scenari, con la loro multipolarità ed asimmetria, ha costretto gli investigatori a tornare sulla componente umana dell’intelligence. Ogni stratega ha la necessità di carpire la mentalità del suo avversario, così può tentare di ragionare come lui in modo da poterne anticipare le mosse e le decisioni. Pertanto dovrà conoscerlo e, se possibile, interagire con lui; più semplicemente ottenere un contatto diretto, visibile e colloquiale. Per tali motivi, l’operatore humint dovrà incontrare l’avversario, porgli dei quesiti, siano essi generici o specifici, ed osservare i suoi comportamenti fino a delinearne un profilo psicologico, umano, professionale e personale. Solo con l’acquisizione di questi dati, l’operatore humint sarà in grado di presagire le reazioni e decisioni del soggetto bersaglio. La Human Intelligence è la sezione dei servizi che fonda le proprie analisi ed interpretazioni sulle acquisizioni reperite sul campo, sul contatto con il nemico attraverso l’interazione con le risorse umane dell’avversario stesso. Una tecnica che prevede la capacità relazionale, l’arte di carpire informazioni, ma anche l’esperienza di estrapolare dai quesiti posti al soggetto bersaglio i significati di interesse per la sicurezza nazionale. Gli agenti humint agiscono sotto copertura infiltrandosi negli ambienti di interesse strategico ed operativo della loro nazione, ma non tutti sono in grado di svolgere il compito con la necessaria efficacia. Per ottenere risultati avranno bisogno non solo dell’addestramento, ma di una specifica attitudine alle relazioni umane, ad interagire con spontaneità e gestire la conversazione per indurre il bersaglio ad esprimersi con naturalezza e sincerità. Un bagaglio culturale che aiuterà l’agente operativo a penetrare nella forma mentis dell’avversario, calandosi nei modi, linguaggi e mentalità del soggetto bersaglio, sostenendo una parte teatrale senza logorarsi psicologicamente e sopportando alti livelli di stress. Altra condizione per ottenere le informazioni è quello di conoscere perfettamente la zona delle operazioni, nella quale l’agente dovrà muoversi senza esitazioni. Ciò gli consentirà di essere parte del territorio e questo lo agevolerà ad avvicinare più soggetti per poi mutarli nel ruolo di fonti, ossia informatori occasionali reclutati tra la popolazione. Le fonti assoldate sul campo, in base al loro status ed alla continuità della collaborazione, potranno essere anche pagate per i servizi resi, in particolare quelli consapevoli del proprio ruolo, ma questi dovranno essere poi indottrinati sulle regole di sicurezza sino a farle proprie, per la loro stessa sicurezza ed anche per quella dell’agente reclutatore. Lo humint militare può adottare anche l’interrogatorio, oppure persuasioni coatte sul soggetto bersaglio, soprattutto se il prigioniero non è un militare e quindi non vincolato alla Convenzione di Ginevra. Il riferimento a tale attività di persuasione è per i terroristi o comunque per i componenti di cellule insorgenti.

Negli interrogatori si applicano le tecniche di manipolazione, suggestione, persuasione e pressione psicologiche od anche i cosiddetti fastidi fisici. Questi ultimi sono limitati a creare bisogni fisiologici che l’interrogante utilizza per indurre alla collaborazione il prigioniero. La biometria potrebbe essere usata anche per dissimulare un agente infiltrato, pertanto le principali agenzie di sicurezza hanno sviluppato alcune contromisure a protezione del personale impiegato sul campo. I documenti della CIA svelati da WikiLeaks, raccontano parte dell’addestramento ricevuto dall’agente sotto copertura, e sono intitolati “Surviving Secondary” e “Schengen Overwiev”. Il contenuto era “NOFORN”, dunque non condivisibile, e messo a punto dalla divisione “Checkpoint” che si occupa della protezione degli humint. Principalmente si consiglia di preparare in anticipo dei profili sui social con l’identità di cui si serviranno, di non dotarsi di personal computer con dati discordanti dal personaggio che interpreteranno, di non acquistare biglietti per il trasporto in contanti, in quanto potrebbero essere rilevate le impronte digitali, conoscere quali paesi effettuano controlli biometrici alle frontiere, in modo da tenere un comportamento coerente e tranquillo per non essere bloccati e sottoposti al riconoscimento tecnico. In questo caso in particolare, è necessario che mantengano il controllo del proprio corpo, in quanto le Forze di Polizia sono addestrate ad individuare persone sospette sull’atteggiamento che palesano. Altri consigli presenti nei documenti della CIA sono definibili come ovvi, ad esempio l’abbigliamento che dovrà essere consono al personaggio che si dovrà interpretare.

Al fine di ottenere il miglior risultato possibile da una indagine biometrica, è necessario valutare il contesto ambientale dove le attrezzature verranno impiegate ed applicate. Se quest’ultime sono all’aperto potrebbero essere scoperte e danneggiate, pertanto si pone la necessità di proteggerle dissimulandole opportunamente od anche facendole sorvegliare da personale qualificato. Inoltre è necessaria la protezione da attacchi informatici, anche con l’ausilio di tecniche crittografiche e di controllo della rete. Attualmente i sistemi in uso sono: la cifratura dei dati di ogni singolo soggetto; i metodi di biohashing; trasformazioni irreversibili; tecniche di cifratura omomorfiche e di intelligenza computazionale. Il processo di riconoscimento biometrico è diviso in due fasi: la prima di “arruolamento” (enrollment) crea e memorizza le caratteristiche del soggetto; la seconda è quella del riconoscimento, ossia la verifica dell’identità dell’indagato ottenuta dal confronto con i dati memorizzati. Ma in questo processo emerge la necessità di proteggere la privacy dei soggetti sotto esame. I tratti biometrici che non subiscono mutazioni nel lungo periodo e consentono l’elevata accuratezza nel riconoscimento di un singolo essere umano, quelli su cui si basa l’indagine, devono essere usati solo per le applicazioni che richiedono elevati standard di sicurezza. Laddove questa condizione non sia soddisfatta, l’investigatore potrà disporre dei tratti maggiormente mutevoli o comunque di minore accuratezza. Tale accorgimento può garantire la necessaria riservatezza ai soggetti non direttamente coinvolti nell’indagine.

Giovanni Caprara

Bibliografia
Gianfilippo Magro, Gerardo Iovane,” La biometria e i nuovi sistemi di identificazione”. www.carabinieri.it
Patrick Tucker, “The future of biometrics”. Defense One, 2015
R. Donida, A. Genovese, F. Scotti, “Biometria: tecnologie, applicazioni e aspetty di privacy. La rivista di FormareNetwork.
Redazione, “I consigli della CIA per le sue spie”. Diritti Globali, 2015

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GUERRA PSICOLOGICA E TERRORISMO CONTEMPORANEO

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ATTUALITA’ DELLA GUERRA PSICOLOGICA

Nell’era dell’informazione è semplicemente suicida trascurare la comunicazione sul piano militare – sia essa inserita in un piano strutturato di guerra psicologica o costituita semplicemente dalla classica propaganda – così come stanno facendo gli stati occidentali che si suppongono impegnati nella guerra al califfato. La rivoluzione 2.0 della comunicazione diffusa e della trasformazione del fruitore/consumatore di informazioni in produttore di informazioni permessa dai nuovi strumenti di comunicazione internet e dalla diffusione dei dispositivi portatili non deve illudere sulla perdita di importanza della “comunicazione istituzionale”: quella classica, monodirezionale e propagandistica che ben lungi dall’essere svanita può invece divenire più sottile, più raffinata ed efficace. Un esempio di come si reagisca ad un attacco propagandistico e mediatico in una situazione bellica ci è stata data dalla Russia nel teatro Ucraino: alla narrazione presentata dai grandi media occidentali che sono riusciti – uniti come un sol uomo – a presentare i manifestanti di Majdan come idealisti pacifici animati da spinte europeiste, il nuovo governo di Kiev come convinto assertore di quei valori e politici nazionalisti ucraini di provenienza oligarchica e dal passato opaco come Julija Timoschenko come eroi della lotta per la democrazia, la tattica russa è stata sin da subito tesa a mostrare la partecipazione tanto ai tumulti che portarono alla deposizione di Janukovich quanto alla successiva guerra nell’est del paese, di estremisti di destra violenti e ideologicamente connotati in senso neonazista (1). Lo sforzo propagandistico profuso dai media occidentali allineati su posizioni atlantiste sarebbe stato degno di miglior causa: infatti gli stessi governi occidentali e – sospettano gli esperti (2) – anche i loro servizi informativi e di sicurezza mancano di un serio piano di guerra psicologica, guerra mediatica e guerra culturale al fondamentalismo islamico. Non è questa la sede per darci ad un’analisi minuziosa di come il califfo stia – con grande successo – comunicando. L’ISPI ha già prodotto una sintesi magistrale cui rimandiamo in nota (3). Ci è sufficiente sottolineare come un qualsiasi gruppo terrorista viva, lapalissianamente, della quantità di terrore che riesce a produrre e trasmettere. Scopo di questo brevissimo studio non è descrivere la comunicazione dello Stato Islamico, quanto costatarne il successo e non l’insuccesso ma l’assenza di reazione dell’occidente.

 

IL SUCCESSO MEDIATICO DEL COSIDDETTO “STATO ISLAMICO”

Il sedicente “Stato Islamico” sta perfettamente centrando l’obiettivo di dettarci l’agenda mediatica e quindi di manipolare la nostra emotività colpendo l’immaginario occidentale con due strumenti:

1. Ostentando una violenza estrema, paradossale, sproporzionata (i filmati delle decapitazioni, il prigioniero giordano bruciato vivo)

2. Colpendo la nostra opinione pubblica su temi nella quale è sensibile: la distruzione del patrimonio archeologico dell’Iraq, la fanatica iconoclastia, l’assalto alle comunità cristiane (quelle alle quali ci sentiamo giocoforza più vicini e inconsciamente solidali) (4)

Non si limita però a farsi forte delle nostre paure, ma usa la forza e la costruzione di un’immagine di invincibilità per un’efficace propaganda di reclutamento. L’immagine di entità politica militarmente invincibile, sicura di sé e della propria visione del mondo è un messaggio quanto mai potente se rivolto alle masse sunnite medio orientali deluse dal fallimento delle “primavere” e alle masse di immigrati presenti in Europa, sia quelle che si trovano in oggettivo stato di emarginazione (si pensi ai giovani disoccupati delle periferie) sia quelle ormai agiate che si sono semplicemente aggiunte all’amorfa borghesia occidentale priva ormai di qualsiasi valore e di qualsiasi base di “pensiero forte”, assenza morale alla quale lo SI si propone appunto di supplire.

 

INCAPACITA’ DI RISPOSTA EUROPEA SUL PIANO DELLA COMUNICAZIONE

Di fronte ad una strategia di comunicazione brutale ed efficace che ne mette in crisi le certezze e parla direttamente alle sue paure, l’occidente (da qui in poi, l’Europa: il concetto di “Occidente” come unità monolitica è destituito di fondamento) non è stato in grado di elaborare alcuna risposta.

1. Nessuna campagna mediatica per cercare di mettersi in contatto con il mondo musulmano sunnita inteso come “comunità”, bensì qualche tentativo abbozzato di “recupero e riabilitazione” di ex-gihadisti, strategia che denuncia la nostra incapacità di pensare se non in termini di “individui” e di fare quindi analisi culturale e sociale: siamo vittime del nostro stesso individualismo elevato a ideologia e a prassi. Lo “Stato Islamico” attiva una comunicazione di massa. L’Europa risponde con una “comunicazione al soggetto”.

2. Per di più, essa è prigioniera dello schema americano “buoni contro cattivi”. Non trova dei “buoni” da giocarsi contro i “cattivi”, realtà facilmente costruita in Ucraina, e quindi subisce la crisi del semplicistico schema.

3. In definitiva, l’assenza di una strategia comunicativa e di una narrazione da proporre al nemico e alle popolazioni che possono essere affascinate dal suo messaggio si riflette nell’assenza di tattica e di operatività. I nostri servizi di sicurezza ritengono intelligente chiudere i siti e le pagine Facebook di propaganda gihadista? Non pensano sia meglio sfruttarle come vetrina e finestra su quel mondo, sui suoi linguaggi e sugli stessi operatori dietro a quei canali? (5)

 

LA GUERRA PSICOLOGICA NON MEDIATICA

Per quanto concerne le tattiche non mediatico/comunicative/culturali di guerra psicologica, vale a dire lo studio della cultura del nemico, l’infiltrazione e gli strumenti derivati dall’HUMINT (human intelligence) i paesi europei sono ancora deficitari. Sullo studio del nemico islamista, della sua storia, cultura e psicologia, dei suoi codici e linguaggi, sconta un ritardo imbarazzante. Il califfo nero sa esattamente cosa suggestiona l’immaginario europeo (decapitazioni, atti di iconoclastia…). Le nazioni europee brancolano nel buio anche solo quando si tratta di distinguere cultura sciita (sensibile come la nostra all’iconoclastia e caratterizzata da una forte devozione a figure spirituali simile per certi aspetti al nostro culto dei santi) e cultura sunnita (più o meno rigidamente aniconica). Sull’analisi psicologica del nemico siamo tanto arretrati da immaginare ancora il fenomeno dell’estremismo religioso come riguardante principalmente i poveri e gli emarginati – e siamo pertanto vittime della mentalità laicista che vuole la religione, qualsiasi religione, come fenomeno del passato, riservato ai minus habentes ed incapace di produrre cultura nel senso positivo – ed ignoriamo il ritorno alla religione della borghesia (6) (come quella degli europei convertiti), avvenga questo ritorno per (anti?)conformismo, per ricerca di valori forti nell’era del pensiero debole o per sincera ricerca spirituale. Sull’infiltrazione e sul livello di attività HUMINT il livello di complessità si alza ulteriormente e merita un discorso a parte.

 

NIENTE STRATEGIA, NIENTE TATTICA – AL MASSIMO COMPLICITA’

Ogni guerra si combatte con una strategia, ogni guerra psicologica si predica anche di comunicazione e di narrazione, e l’Europa una strategia, una tattica e una narrazione di sé non le ha. Come potrebbe averne un continente diviso e litigioso rappresentato, tra l’altro, da quella sovrastruttura burocratica, da quel Moloch che va sotto il nome di Unione Europea? Vale la pena ripeterlo: l’Europa non possiede una narrazione di sé, ecco perché non è in grado di proporne alcuna all’esterno. Eppure si fa largo il sospetto che l’inazione europea sottenda cattiva coscienza. Senza citare l’eterno caso del sostegno ai mugiahedin afghani ed affini, è inquietante notare come le potenze europee e di area NATO abbiano, quando non appoggiato attivamente, chiuso uno o entrambi gli occhi sull’attività del fondamentalismo settario anche alle porte dell’Europa (Bosnia, Cossovo) o dentro i paesi UE, che forniscono tutt’oggi asilo e garantiscono libertà di parola e propaganda a esponenti del separatismo ceceno (7) o di inquietanti apologeti del gihadismo (8). Quanto zone d’ombra dell’attentato di Parigi già molto si è detto, scadendo anche nel banale complottismo. E’ proprio in queste zone d’ombra e nelle organizzazioni gihadiste basate in Europa che c’è da augurarsi agiscano i nostri servizi informativi e di sicurezza, pur colpiti dai tagli di bilancio e dal “rompete le righe” seguito alla fine della Guerra Fredda. C’è da augurarselo perché per la sicurezza il fattore HUMINT e l’infiltrazione si conferma imprescindibile, non fosse altro perché l’estrema fiducia riposta negli strumenti tecnologici fin ora è stata tradita. Di certo è proprio in quelle zone d’ombra che si è mosso in modo ambiguo l’indirizzo politico: gli obiettivi dei governi. Il proficuo ruolo il grand-guignol dello “Stato Islamico” svolge nell’impedire che sorga una potenza medio orientale che possa coalizzare a sé i popoli arabi in senso modernizzatore (il sogno di Nasser, l’incubo degli USA, di Israele e dei Sauditi) è ormai noto anche ad analisti non certo ostili alle logiche atlantiste (9). E’ quantomeno legittimo sospettare che, quando obiettivo primario delle potenze atlantiste era la rimozione del governo baathista siriano, i servizi di controspionaggio europei abbiano ricevuto mandato di chiudere un occhio (i servizi turchi entrambi) sul flusso di combattenti che si recava in Siria per unirsi ai libelli. E’ questa la cattiva coscienza di cui si parlava all’inizio del paragrafo, è questa la schizofrenia strategica che ci affligge – i ribelli siriani passati da “eroi in lotta contro un regime sanguinario” a “terroristi fondamentalisti” nel giro di tre-quattro anni – e che ci impedisce di impostare qualsiasi tattica.

 

CONCLUSIONI: UN CAMBIO DI PROSPETTIVA

Lo stato di cose sin qui esposto ed analizzato è figlio della miopia delle nostre classi dirigenti, alle quali dovremmo chiedere coerenza e visione, non una marcia dei buoni propositi nel centro di Parigi, per di più invitando il presidente turco. Il terrorismo politico degli anni ’70 fu vinto dal benessere degli anni ’80 e ’90, non da strategie vincenti dei governi – strategie che non si videro. La violenza dei terroristi rossi, anarchici e neri li isolò da una società che aveva la pancia troppo piena per sognare superuomini nietzschiani o soli dell’avvenire. Il terrorismo religioso non ci lascerà questo aggio perché si radica tanto nelle pance piene che in quelle vuote. Sarebbe bene cominciare a darne una lettura geopolitica e strategica, non solo “sentimentale”, alla “je suis” – per quanto, proprio nella logica sin qui indicata trasmettere ed enfatizzare l’immagine di una società unita contro la violenza e non divisa su basi settarie sia quantomeno un inizio.

Amedeo Maddaluno

 

NOTE
1. http://www.geopolitica-rivista.org/26031/che-cose-la-guerra-culturale/
2. http://www.aldogiannuli.it/fallimento-lotta-al-terrorismo/
3. http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/sicurezza-mediterraneo-medio-oriente-italia/twitter-e-jihad-la-comunicazione-dellisis-12852
4. È da notare che nessuna delle atrocità messe in campo dal sedicente “Stato Islamico”, dal rogo alla decapitazione alla pratica iconoclasta, sia in realtà estranea alla storia occidentale: si tratta piuttosto di traumi antichi che l’Occidente ha preteso rimuovere dal proprio immaginario per meglio illudersi di poter vivere in un mondo irenico.
5. http://www.aldogiannuli.it/fallimento-lotta-al-terrorismo/
6. Si veda l’interessantissimo studio di M. Graziano, “Guerra Santa e Santa Alleanza” appena uscito per Il Mulino: un testo imprescindibile per chi voglia mettere in relazione la sociologia delle religioni con la geopolitica delle religioni.
7. http://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/I-ceceni-e-la-guerra-ucraina-159892 – “Durante la seconda guerra cecena, tra il 1999 e il 2000, Isa Munaev dopo aver subito una grave ferita lasciò il paese e ottenne asilo in Danimarca. Dalla Danimarca organizzò nel 2009 il movimento Svobodnyj Kavkaz (Caucaso Libero) e nel marzo 2014 costituì il battaglione di volontari “Dzhokhar Dudaev” di cui egli subito assunse il comando schierandosi nella guerra in Ucraina orientale a fianco delle forze governative (anti-russe)”
8. http://www.ilcaffegeopolitico.org/23416/dalleuropa-medio-oriente-gruppo-jihadista-sharia4
9. http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-02-26/verita-e-bufale-isis-che-punto-e-veramente-avanzata-califfato-111310.shtml?uuid=ABJDaz0C – “C’è però una strategia più generale in atto da tempo, cui non sono certo estranei gli Stati Uniti e Israele: indebolire il mondo arabo, frammentarlo, impedire che nascano stati forti sulla base di ideologie nazionaliste e panarabe. La distruzione di Iraq e Siria, due regimi baathisti laici, corrispondeva e corrisponde esattamente a questo obiettivo. L’altro caposaldo è quello di impedire all’Iran sciita e ai suoi alleati di estendere la loro influenza. Per questo tutto serve: anche l’orrore barbaro del Califfato.”

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LUOGHI SANTI E “STATO ISLAMICO”

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Secondo una definizione complessiva che intende sintetizzare quelle fornite dai vari studiosi, la geopolitica può essere considerata come “lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, ove si considerino l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati”(1).
Per quanto grande sia il peso attribuito ai fattori geografici, permane tuttavia il rapporto della geopolitica con la dottrina dello Stato, sicché viene spontaneo porsi una questione che finora non ci risulta aver impegnato la riflessione degli studiosi. La questione è la seguente: sarebbe possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”(2)? In altre parole, è ipotizzabile che la stessa geopolitica rappresenti la derivazione secolarizzata di un complesso di concetti teologici connessi alla “geografia sacra”?
Se così fosse, la geopolitica si troverebbe in una situazione per certi versi analoga non soltanto alla “moderna dottrina dello Stato”, ma alla generalità delle scienze moderne. Per essere più espliciti, ricorriamo ad una citazione di René Guénon: “Separando radicalmente le scienze da ogni principio superiore col pretesto di assicurar loro l’indipendenza, la concezione moderna le ha private di ogni significato profondo e perfino di ogni interesse vero dal punto di vista della conoscenza: ed esse son condannate a finire in un vicolo cieco, poiché questa concezione le chiude in un dominio irrimediabilmente limitato”(3).
Per quanto riguarda in particolare la “geografia sacra”, alla quale secondo la nostra ipotesi si ricollegherebbe in qualche modo la geopolitica, è ancora Guénon a fornirci una sintetica indicazione al riguardo. “Esiste realmente – egli scrive – una ‘geografia sacra’ o tradizionale che i moderni ignorano completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna esser capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà. È per questo che vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da ‘supporto’ all’azione delle ‘influenze spirituali’, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di certi ‘centri’ tradizionali principali o secondari, di cui gli ‘oracoli’ dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di ‘influenze’ di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”(4).
Non è dunque detto che una traccia della “geografia sacra” non sia individuabile in alcune caratteristiche nozioni geopolitiche, che potrebbero essere perciò schmittianamente considerate “concetti teologici secolarizzati”. Si pensi, ad esempio, ai termini Heartland (“territorio cuore”) e pivot area (“area perno”), i quali, riprendendo alcune rappresentazioni d’origine asiatica che circolavano nei circoli fabiani frequentati da Mackinder, richiamano in maniera esplicita il simbolismo del cuore ed il simbolismo assiale e ripropongono in qualche modo quell’idea di “Centro del Mondo” che gli antichi rappresentarono attraverso una varietà di simboli, geografici e non geografici. Più volte ci si è offerta l’occasione per osservare che, se la scienza delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus “aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre”(5), questa idea non è scomparsa con la visione “arcaica” del mondo, ma è sopravvissuta in modo più o meno consapevole in contesti storico-culturali più recenti(6).
D’altra parte, fra i termini geografici ve ne sono alcuni che le culture tradizionali hanno utilizzato per designare realtà appartenenti alla sfera spirituale. È il caso del termine polo, che nel lessico dell’esoterismo islamico indica il vertice della gerarchia iniziatica (al-qutb); è il caso di istmo, che nella versione araba (al-barzakh) indica quel mondo intermedio cui si riferisce anche l’espressione d’origine coranica “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn), “confluenza, cioè, del mondo delle Idee pure col mondo degli oggetti sensibili”(7).
Ma è lo stesso concetto di Eurasia che può essere assegnato alla categoria dei “concetti teologici secolarizzati”. Da una parte, infatti, la cosmologia indù e buddhista rappresenta l’Asia e l’Europa come un unico continente che ruota intorno all’asse della montagna cosmica; dall’altra, il più antico testo teologico dei Greci, la Teogonia esiodea, considera “Europa (…) ed Asia”(8) come due sorelle, entrambe figlie di Oceano e di Teti, sicché esse appartengono alla “sacra stirpe di figlie (thygatéron hieròn génos) che sulla terra – allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo – e coi Fiumi: questa sorte esse hanno da Zeus”(9).
In relazione a quanto esposto dalla teologia greca, vale la pena di notare che tra le sorelle di Europa e di Asia figura anche Perseide, il nome della quale è significativamente connesso non solo a quello del greco Perseo, ma anche a quello di Perse, figlio di lui e progenitore dei Persiani. Ascoltiamo ora il teologo della storia: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome”(10).
La stretta parentela dell’Asia con l’Europa è proclamata infine anche dal teologo della tragedia, il quale nella parodo dei Persiani ci presenta la Persia e la Grecia come due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe (kasignéta génous tautoû)”(11), mostrandoci “gli assolutamente distinti (i Due che, in Erodoto, non possono non muoversi guerra) come alla radice inseparabili”(12). Tale è il commento di Massimo Cacciari, al quale l’immagine eschilea, rappresentativa della radicale connessione di Europa e di Asia, ha fornito lo spunto per concepire il progetto di una “geofilosofia dell’Europa”.
Altri hanno cercato di andare oltre, tracciando le linee di una “geofilosofia dell’Eurasia”. Ad esempio Fabio Falchi, accogliendo la prospettiva corbiniana dell’Eurasia quale luogo ontologico della teofania (13), ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella “geosofica, la quale è compiutamente intellegibile se, e solo se, sia posta in relazione con la prospettiva metafisica”(14).

* * *

Se è vero che a volte nella geopolitica si possono cogliere alcune remote risonanze di motivi e nozioni appartenenti al simbolismo geografico delle culture religiose, è anche vero che il fattore religioso riveste una notevole importanza tra gli oggetti dell’analisi geopolitica. Il recente numero di “Eurasia” dedicato alla “geopolitica delle religioni” (n. 3 del 2014) ha appunto inteso mostrare come in diverse zone della terra il suddetto fattore costituisca, tra le altre cose, un parametro imprescindibile della geopolitica, specialmente nel caso di alcune odierne aree di crisi e di conflitto quali l’Ucraina, l’Iraq, la Palestina.
Il caso particolare del cosiddetto “Stato Islamico”, che insieme col caso ucraino è oggetto di più approfondita analisi in questo numero di “Eurasia”, impone all’attenzione dell’osservatore geopolitico un altro tema di rilievo: quello dei luoghi sacri, delle città sante, dei centri religiosi, delle mete di pellegrinaggio.
I luoghi di culto e i monumenti religiosi sono infatti un obiettivo privilegiato della furia distruttrice dei miliziani del sedicente “Califfo” Abu Bakr al-Baghdâdî, i quali li considerano centri di apostasia e di politeismo. Nei territori da loro controllati, infatti, sono state devastate o demolite moschee (sia sunnite sia sciite), chiese cristiane, tombe di profeti, di maestri spirituali e di uomini pii. Per limitarci a pochissimi casi emblematici, ricordiamo che a Mossul sono stati abbattuti il mausoleo del profeta Yunus e quello di San Giorgio; a Tikrit sono state fatte saltare in aria la Chiesa Verde (principale testimonianza della comunità assira, risalente al VII secolo) e la moschea dei Quaranta Santi (Wâlî Arba’în), una delle più significative testimonianze dell’architettura islamica del XIII secolo; ad Aleppo è stata ridotta in polvere la Moschea Khosrofiya, costruita nel 1537 dal grande Sinan; a Samarra è stato distrutto il mausoleo di Imam al-Dur, costruito nel 1085.
La matrice ideologica di tali azioni è evidente. Esse costituiscono una replica delle distruzioni dei siti storici e cultuali dell’Islam perpetrate in Arabia dai wahhabiti, in base alle teorie che condannano la dottrina dell’intercessione (tawassul) e assimilano all’idolatria la pia visita ad un luogo in cui sia sepolto un profeta o un santo. Nella penisola arabica le devastazioni più gravi dei siti aventi rilievo religioso o storico ebbero inizio nel 1806, quando l’esercito wahhabita occupò Medina: allora furono abbattute parecchie moschee e venne distrutto il cimitero di Baqi’ (Jannat al-Baqi’), dove riposavano i resti mortali di importanti figure degli esordi dell’Islam. In quella circostanza, perfino il sepolcro del Profeta Muhammad rischiò la distruzione. Il 21 aprile 1925 gli Ikhwân di ‘Abd el-‘Azîz ibn Sa’ûd demolirono altri monumenti della tradizione islamica, tra cui le tombe dei familiari del Profeta. In seguito, per effetto di una fatwa emessa nel 1994 da ‘Abd el-‘Azîz ibn Bâz, mufti del regime wahhabita saudiano, sono state distrutte circa sei centinaia di cimiteri, sepolcri, moschee, oratori e siti religiosi ultramillenari, tra cui la casa natale del Profeta a Mecca e la sua casa di Medina.
Se in Arabia, in Iraq e in Siria i luoghi santi e i monumenti religiosi sono oggetto della furia wahhabita e takfirita, in Palestina l’esistenza dei santuari islamici è minacciata dal regime d’occupazione sionista. Già nel 1967, quando si impadronirono di Gerusalemme, i sionisti avviarono un programma di scavi sotto il Monte del Tempio, a sud e sudovest, in un terreno appartenente al waqf che gestisce le moschee del Haram al-sharîf. “Gli scavi, diretti da un gruppo di eminenti archeologi israeliani, furono finanziati, in parte, da filantropi ebrei e in parte dalla Chiesa di Dio, un’istituzione fondamentalista che aveva sede a Pasadena in California e ramificazioni in tutto il mondo; era diretta da un certo Herbert Armstrong, che affermava di essere uno dei messaggeri di Dio in terra”15.
L’obiettivo finale degli scavi finanziati dai “filantropi ebrei”, guidati dal Rabbinato e patrocinati dal regime sionista è la demolizione della moschea di al-Aqsa e della Cupola della Roccia, le quali sorgono sulla stessa area su cui dovrebbe sorgere il Nuovo Tempio del giudaismo.

*Direttore di “Eurasia”.

NOTE
1. Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma 2011.
2. Carl Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, trad. it. di P. Schiera, in: C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.
3. René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni dell’Ascia, Roma 1953, p. 66.
4. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 162.
5. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.
6. Claudio Mutti, La funzione eurasiatica dell’Iran, “Eurasia”, 2, 2012, p. 176; Idem, Geopolitica del nazionalcomunismo romeno, in: M. Costa, Conducator. L’edificazione del socialismo romeno, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, pp. 5-6.
7. Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, p. 154. Sul barzakh, cfr. Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, Mimesis, Milano-Udine 209, pp. 97-123.
8. Esiodo, Teogonia, 357-359.
9. Esiodo, Teogonia, 346-348.
10. Erodoto, VII, 61, 3.
11. Eschilo, Persiani, 185-186. Su questa immagine, cfr. C. Mutti, L’Iran in Europa, “Eurasia”, 1, 2008, pp. 33-34.
12. Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 19.
13. “L’Eurasia è, oggi e per noi, la modalità geografico-geosofica del Mundus imaginalis” (Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, cit., p. 40).
14. Glauco Giuliano, Tempus discretum. Henry Corbin all’Oriente dell’Occidente, Edizioni Torre d’Ercole, Travagliato (Brescia) 2012, p. 16.
15. Amos Elon, Gerusalemme, città di specchi, Rizzoli, Milano 1990, p. 256.

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L’EURASIA AGGREDITA SU PIÙ FRONTI

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Il 12 marzo 2015 il Parlamento dell’Unione Europea ha votato una risoluzione sulla relazione annuale tenuta dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza. Dopo aver esordito sottolineando “il drastico peggioramento del contesto della sicurezza in tutta l’UE, in particolare nelle sue immediate vicinanze” (par. 1), il Parlamento europeo “rammenta che l’UE ha l’obbligo (…) di garantire che la sua azione esterna sia progettata e attuata allo scopo di consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani e i principi del diritto internazionale” (par. 16) e “prende atto dell’aumento della richiesta di assistenza internazionale nel sostegno alla democrazia” (par. 17).

Dopo alcune pagine, il testo della risoluzione parlamentare viene al dunque: il Parlamento “ritiene necessaria una strategia politica globale volta a ristabilire l’ordine politico europeo (…) e a vincolare tutti gli Stati europei, tra cui la Russia; (…) ritiene che lo sviluppo di un dialogo costruttivo con la Russia e con altri paesi del vicinato dell’UE in materia di cooperazione per rafforzare questo ordine costituisca una base importante per la pace e la stabilità in Europa, purché la Russia rispetti il diritto internazionale e assolva ai suoi impegni relativi alla Georgia, alla Moldova e all’Ucraina, compreso il ritiro dalla Crimea” (par. 30). Rispolverato il lessico della guerra fredda per enunciare la necessità di “contenere le ambizioni della Russia nel suo vicinato” (par. 31), il testo assume i toni dell’arringa. Il Parlamento “condanna fermamente il fatto che la Russia abbia violato il diritto internazionale mediante l’aggressione militare diretta e la guerra ibrida contro l’Ucraina, che ha provocato migliaia di vittime militari e civili, così come l’annessione e l’occupazione illegittime della Crimea e le azioni di natura analoga nei confronti dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, territori della Georgia; sottolinea l’allarmante deterioramento del rispetto dei diritti umani, della libertà di espressione e della libertà dei media in Crimea” (par. 34); “sostiene le sanzioni adottate dall’UE in reazione all’aggressione russa contro l’Ucraina [le quali] potrebbero anche essere rafforzate” (par. 35); “invita i paesi candidati all’adesione ad allineare la loro politica estera nei confronti della Russia con quelli dell’Unione” (par. 36); infine, toccando i vertici dell’impudenza, “sottolinea la necessità di un approccio europeo coerente nei confronti delle campagne di disinformazione e delle attività di propaganda utilizzate dalla Russia all’interno e all’esterno dell’UE; esorta il SEAE e la Commissione a presentare un piano d’azione con misure concrete per contrastare la propaganda russa; chiede la cooperazione con il Centro di eccellenza delle comunicazioni strategiche della NATO sulla questione” (par. 37).

Quanto alla NATO, il Parlamento europeo considera che “la cooperazione UE-NATO debba essere rafforzata e che sia necessario intensificare la pianificazione e il coordinamento tra la difesa intelligente della NATO e la messa in comune e la condivisione dell’UE” (par. 54). Esso infatti “ritiene che gli Stati Uniti siano il principale partner strategico dell’UE e promuove un maggior coordinamento, in condizioni di parità [sic], con tale paese in materia di politica estera dell’Unione Europea e a livello globale; sottolinea il carattere strategico del partenariato transatlantico su commercio e investimenti che ha il potenziale di consentire ai partner transatlantici di fissare standard globali in materia di lavoro, salute, ambiente e proprietà intellettuale e rafforzare la governance globale” (par. 52); infine “sottolinea la necessità di definire una strategia dell’UE in coordinamento con gli Stati Uniti” (par. 55).

L’appiattimento sulle posizioni di Washington concernenti l’Ucraina, espresso in termini inequivocabili dalla risoluzione votata dal Parlamento europeo, esclude la possibilità di un accordo tra Europa e Russia, che danneggerebbe in maniera decisiva l’egemonia statunitense. Con la sua programmatica rinuncia ad assumere decisioni autonome e sovrane, l’Unione Europea tradisce ancora una volta gl’interessi fondamentali dell’Europa.

La rilevanza dell’Ucraina nella strategia del controllo americano sull’Europa è stata lucidamente evidenziata da Zbigniew Brzezinski circa vent’anni fa, quando non era facile immaginare il ruolo centrale che l’Ucraina avrebbe assunto sullo scacchiere eurasiatico. Eppure il geopolitico americano ne aveva indicato la funzione di “perno” (pivot), l’importanza vitale per la Russia e per l’intera Eurasia. “L’Ucraina, un nuovo ed importante spazio sullo scacchiere eurasiatico, – possiamo leggere in The Grand Chessboard – è un perno geopolitico, perché la sua esistenza stessa come paese indipendente serve a trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. La Russia senza l’Ucraina può ancora lottare per uno statuto imperiale, ma allora diventerebbe uno Stato imperiale prevalentemente asiatico, più facilmente trascinabile in conflitti debilitanti con le risorte popolazioni dell’Asia centrale (…) Comunque, se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente ritrova il modo per diventare un potente Stato imperiale, esteso sull’Europa e sull’Asia”(1).

Quindi gli Stati Uniti devono impedire ad ogni costo che Mosca estenda all’Ucraina la propria egemonia, perché ciò significherebbe l’espulsione della potenza americana dal continente eurasiatico. Nonostante Washington abbia tardato “a riconoscere l’importanza geopolitica di uno Stato ucraino separato, (…) gli artefici della politica americana sono anche giunti a descrivere il rapporto americano-ucraino come ‘un partenariato strategico’”(2).

Offrendo all’Ucraina la possibilità di entrare nell’Unione Europea, patrocinando il colpo di Stato di Kiev, fornendo aiuto politico e militare al regime golpista, appoggiando le iniziative antirusse del governo statunitense, l’Unione Europea e le cancellerie di alcuni paesi europei hanno collaborato attivamente alla realizzazione del piano elaborato dallo stratega della Casa Bianca, secondo il quale l’Europa costituisce la “testa di ponte democratica” degli Stati Uniti nel continente eurasiatico (3). È infatti lo stesso Brzezinski a dichiarare esplicitamente: “Un’Europa allargata e una NATO allargata serviranno gl’interessi a breve e a lungo termine della politica statunitense. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così politicamente integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Medio Oriente” (4).

Un anno prima che Brzezinski assegnasse all’Europa il ruolo di “testa di ponte” per la conquista americana dell’Eurasia, l’ideologo dello “scontro delle civiltà” teorizzava, in relazione all’Ucraina, la necessità di “un forte ed efficace sostegno occidentale, che a sua volta potrebbe giungere solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guerra Fredda” (5).

Se sul fronte ucraino il tentativo di conquista dell’Eurasia fa ricorso alla collaborazione scoperta e diretta dell’Unione Europea, sui fronti del Vicino Oriente e del Nordafrica la strategia statunitense del “caos creativo” utilizza i movimenti di matrice wahhabita e salafita e, in special modo, il cosiddetto “Stato Islamico”. La natura eterodossa e settaria di queste forze, i cui nemici principali sono la Repubblica Islamica dell’Iran ed i suoi alleati, ha attivato una sorta di guerra intraislamica che, contribuendo a destabilizzare i paesi dell’area compresa fra la Tunisia e l’Iraq, favorisce la supremazia del regime sionista e fornisce l’occasione per un più deciso impegno occidentale in tutta la regione.

Anche in questo quadrante l’Europa ha messo le proprie energie a disposizione di una manovra che è rivolta contro di essa e contro il continente di cui essa è parte. In Libia, l’aggressione anglo-francese ha dato via libera a bande terroriste che esercitano una pressione sull’Europa mediterranea e giustificano agli occhi di quest’ultima l’esistenza della NATO, ossia dello strumento militare con cui gli USA tengono incatenata l’Europa stessa e con cui preparano la guerra contro la Russia. Non solo. Distruggendo la Libia, gli esecutori della strategia del “caos creativo” hanno aperto un varco attraverso cui milioni di disperati invadono l’Europa, facendo crollare il costo del lavoro e indebolendo ulteriormente la coesione sociale dei paesi europei.

In questo scenario, la tesi dello “scontro delle civiltà” svolge egregiamente il suo ruolo. Azioni terroristiche come quella di Tunisi – e come quella precedente di Parigi, provocata dalla pervicacia del laicismo blasfemo – vengono magistralmente utilizzate per rafforzare una concezione negativa dell’Islam e per rilanciare l’immagine dell’Occidente quale portatore di libertà e tolleranza. Facendosi carico di un’offensiva contro l’Islam, l’Europa non fa altro che eseguire il “lavoro sporco” richiesto dal progetto americano, per cui, in definitiva, essa si impegna in una lotta mortale contro se stessa.

Claudio Mutti

Claudio Mutti è direttore di “Eurasia”.

 

NOTE

1. “Ukraine, a new and important space on the Eurasian chessboard, is a geopolitical pivot because its very existence as an independent country helps to transform Russia. Without Ukraine, Russia ceases to be a Eurasian empire. Russia without Ukraine can still strive for imperial status, but it would then become a predominantly Asian imperial state, more likely to be drawn into debilitating conflicts with aroused Central Asians (…) However, if Moscow regains control over Ukraine, with its 52 million people and major resources as well as its access to the Black Sea, Russia automatically again regains the wherewithal to become a powerful imperial state, spanning Europe and Asia” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, p. 46).
2. “in recognizing the geopolitical importance of a separate Ukrainian state, (…) American policy makers also came to describe the American-Ukrainian relationship as ‘a strategic partnership'” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 113).
3. “Europe is America’s essential geopolitical bridgehead on the Eurasian continent” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 59).
4. “A wider Europe and an enlarged NATO will serve the short-term and longer-terme interests of U.S. policy. A larger Europe will expand the range of American influence without simultaneously creating a Europe so politically integrated that it could challenge the United States on matters of geopolitical importance, particularly in the Middle East” (Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, “Foreign Affairs”, Sept.-Oct. 1997, p. 53).
5. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, p. 242.

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L’EURASIA AGGREDITA SU PIÙ FRONTI

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L’EURASIA AGGREDITA SU PIÙ FRONTI
Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

Editoriale
Claudio Mutti, L’Eurasia aggredita su più fronti

Dossario: L’Eurasia aggredita su più fronti

LA GUERRA SU PIÙ FRONTI CONTRO IL CUORE DELL’EURASIA
di Mahdi Darius Nazemroaya

Gli USA hanno scatenato in Eurasia e in Africa una Guerra su più fronti che si estende all’America Latina. Lo scopo di Washington e Wall Street è di impedire l’integrazione eurasiatica e la nascita di un blocco economico rivale. È in questo contesto che Washington sta destabilizzando la Siria, l’Iraq e l’Ucraina. L’obiettivo strategico consiste nell’impedire che attorno al centro del Continente eurasiatico si uniscano le periferie dell’Europa occidentale e dell’Estremo Oriente. Ecco perché Washington sta facendo il possibile contro la Federazione Russa e contro l’Unione Economica Eurasiatica.

O l’OCCIDENTE O L’EURASIA
di Spartaco Alfredo Puttini

Lo svolgersi degli eventi che si susseguono sulla scena internazionale palesano ogni giorno di più uno stato di crescente tensione. Non si allude qui ai vari focolai che tormentano diverse regioni del pianeta, magari da decenni, ma alla crescente rivalità che divide e contrappone le grandi potenze. Per tutti coloro che hanno guardato con occhi disincantati la realtà internazionale di questi ultimi decenni il manifestarsi delle divergenze tra l’Occidente guidato dagli Stati Uniti da un lato e la Russia ed altre forze dall’altro non rappresenta una novità, ma una conferma. La conferma della inevitabile alterità fra il tentativo di egemonia statunitense e la volontà di una serie di Stati e di popoli di difendersi e di ripristinare un equilibrio di potenza, favorendo la nascita di un mondo multipolare.

LA QUESTIONE UCRAINA IN PROSPETTIVA GEOPOLITICA
di Fabio Falchi
Riguardo alla “questione ucraina”, i media occidentali non si limitano alla consueta criminalizzazione del “nemico”, bensì “ignorano” quasi del tutto le vicende belliche del conflitto russo-tedesco nel 1941-45 e non esitano a presentare una visione palesemente “distorta” della stessa storia della Russia. Nondimeno, è palese che gli “strateghi occidentali” siano perfettamente consapevoli che quanto accade in Ucraina è una minaccia gravissima alla sicurezza nazionale della Russia. Posto allora che non è verosimile che gli Stati Uniti vogliano combattere una guerra termonucleare contro la Russia, è lecito ritenere che si sia in presenza di una vera e propria strategia della tensione, che ha come obiettivo la destabilizzazione non solo della Russia ma anche della stessa Europa.

LA SINDROME DI GORBACIOV
di Vincenzo Mungo
La politica di Gorbaciov fallì nel suo obiettivo anche a causa delle incertezze della classe dirigente sovietica di quel periodo. Oggi, sotto l’incalzare della pressione occidentale, la classe dirigente russa rischia di diventare preda di un analogo complesso di paure, di indecisioni e di eccessiva tolleranza verso gli avversari. Qualora essa si lasciasse contagiare di nuovo dalla “sindrome di Gorbaciov”, non farebbe altro che consegnare il Paese all’imperialismo americano.

LA BIELORUSSIA AL BIVIO
di Giuseppe Cappelluti
Tradizionalmente la Bielorussia è il più filorusso tra gli Stati postsovietici: la sua popolazione si percepisce tanto come bielorussa quanto come russa, e il suo governo è uno dei maggiori fautori dell’integrazione eurasiatica. Tuttavia, negli ultimi mesi, le tensioni in Ucraina e le pressioni incrociate di Russia e Occidente hanno spinto il Paese in una posizione non facile, da cui esso sta cercando di uscire riscoprendo il nazionalismo e adottando una posizione ambigua sulla crisi in corso nel Paese esteuropeo. Alcuni, specie in Occidente, sostengono – non senza una certa Schadenfreude – che Russia e Bielorussia stiano vivendo una sorta di crisi di coppia. Una rottura vera e propria, però, è tutt’altro che probabile.

LA REPUBBLICA OLTRE IL DNESTR
di Ivelina Dimitrova
La Repubblica moldava di Pridnestrov’e, la Transnistria, è uno Stato che, benché non sia riconosciuto da nessuno, tuttavia esiste dal 2 settembre 1990, quando, all’epoca della sua dichiarazione di indipendenza, molti degli attuali membri dell’UE non esistevano ancora come Stati. La Transnistria è un paese che ha il suo esercito, la sua frontiera, la sua moneta, la sua polizia ed una sua spiccata identità “nazionale”. Oggi, con il conflitto in Ucraina, questa piccola striscia di terra ha assunto un’importanza ancora più grande dal punto di vista geopolitico.

LA CORSA ALL’ARTICO
di Emiliano Vitaliano
Negli ultimi anni lo scioglimento progressivo dei ghiacciai ha spinto varie potenze mondiali a manifestare interesse per le ingentissime risorse naturali dell’Artico. La Russia intravede in questa zona una possibilità di rafforzare la propria economia e di giocare un ruolo da protagonista nella politica mondiale. La Cina è interessata, oltre che ai vari giacimenti, anche ai nuovi corridoi di navigazione, così come l’UE. Le risorse naturali dell’Artico fanno gola anche agli USA, i quali temono la vicinanza della Russia alle coste americane. Insomma, l’Artico è lo scenario in cui si stabiliranno i nuovi equilibri geopolitici del pianeta.

UNA “PIETRA NERA” A STELLE E STRISCE STA COMPRANDO L’ITALIA?
di Stefano Vernole
Il fondo d’investimento statunitense Blackstone e il suo ex gestore Blackrock stanno acquisendo sempre più potere in Italia, quasi a compensare il recente attivismo economico della Repubblica Popolare Cinese nel nostro paese. L’indebitamento statale, le misure finanziarie richieste per adeguarsi ai parametri europei, le nuove privatizzazioni hanno aperto diverse prospettive agli investitori ma soprattutto agli speculatori, mentre lo sguardo “interessato” dei servizi di sicurezza italiani sembra posarsi più sui primi che sui secondi. Dietro un’apparente concorrenza di carattere commerciale si nasconde uno scontro geopolitico determinante per le sorti dell’Eurasia.

EUROPA: TERRA DI CONQUISTA O CAMPO DI BATTAGLIA?
di Alessandra Colla
I fatti di Parigi sono stati magistralmente usati per rafforzare una concezione negativa dell’Islam e per rilanciare l’immagine dell’Occidente come portatore di libertà e tolleranza. Facendosi carico di un’offensiva contro l’Islam, l’Europa non fa altro che svolgere il “lavoro sporco” richiesto dal progetto della globalizzazione americana.

 

Osservatorio

L’EUROPA DIVISA: BUDAPEST E ATENE
di Ivelina Dimitrova

Mai come oggi i rapporti tra il Cremlino e l’Occidente sono stati così tesi. Tuttavia, nell’attuale situazione di stagnazione economica e di instabilità politica, una parte significativa dell’opinione pubblica europea si sta chiedendo il perché di tanto accanimento nei confronti della Russia e molti uomini politici ritengono vitale per l’Europa il miglioramento delle relazioni con il Cremlino. Grecia ed Ungheria, in particolare, stanno conducendo una politica pragmatica nei confronti della Federazione Russa, essendo più preoccupate di tutelare l’interesse nazionale che di adeguarsi totalmente alle imposizioni occidentali.

I RAPPORTI FRA GRECIA E TURCHIA E IL RUOLO DI MOSCA
di Aldo Braccio
Chi soffia sul fuoco dello scontro di civiltà addita non di rado come modello dell’opposizione fra “Europa cristiana” e “Asia islamica” proprio il contrapporsi di Grecia e Turchia. Prescindendo da queste enfatizzazioni interessate, è certo che non mancano motivi di contrasto fra i due Paesi: la questione cipriota – ampliata oggi dalla scoperta dell’importanza dell’isola nel reperimento di risorse energetiche – quella inerente la ripartizione degli spazi marittimi e il problema scottante del transito di immigrati clandestini ne sono gli elementi salienti. L’entrata in scena del nuovo governo greco – significativamente sostenuto dalla minoranza turca presente in territorio ellenico – può favorire un percorso di reciproca collaborazione soltanto faticosamente intrapreso negli anni scorsi con la costituzione di un Consiglio di alta cooperazione strategica. Fondamentale nella ricerca di nuovi e più stabili equilibri sarà il ruolo che svolgerà la Russia, potenza eurasiatica di riferimento e di richiamo per Atene (come gli esponenti di Syriza hanno decisamente ribadito) ma anche interlocutore assolutamente imprescindibile per Ankara; fra Grecia e Turchia potrà essere Mosca – anziché l’Unione Europea, che non ha fin qui voluto o saputo svolgere tale ruolo – a favorire un’intesa in questo importante quadrante del Mediterraneo.

PREMESSE E CONSEGUENZE DEL VOTO GRECO
di Andrea Turi
Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, trionfa nelle elezioni politiche anticipate di fine gennaio. Un successo annunciato che impaurisce i creditori internazionali e la troika. Cosa comporta la vittoria del partito antiausterità? Chi sono i suoi alleati di governo? La Grecia è pronta a guardare verso altre direzioni e a muoversi oltre il mero atlantismo della sua politica estera? Cronistoria e analisi di un voto figlio della crisi ellenica.

FRONT NATIONAL… FRONT FAMILIAL
di Yannick Sauveur
La presentazione del Front National che viene fatta al grande pubblico è ampiamente viziata. Una comprensione più esatta di quello che è il FN, da quando Marine Le Pen ne ha assunto la presidenza (gennaio 2011), non può prescindere dalla storia del partito, a partire dalla sua fondazione nel 1972. Considerato in una prospettiva diacronica, il FN rivela continuità e momenti di rottura; questi ultimi, più formali che sostanziali.

L’INCERTO FEDERALISMO IRACHENO
di Ali Reza Jalali
Il sistema di governo dell’Iraq si caratterizza per una marcata autonomia delle regioni rispetto al governo centrale, muovendosi dunque, dopo gli anni del dominio nazionalista di Saddam, da un modello tendenzialmente accentratore a un modello di tipo vagamente federale, con i vantaggi e gli svantaggi che derivano da questa impostazione. I vantaggi derivano dalla scelta di instaurare un modello che, almeno in linea teorica, si addice a un paese non omogeneo come l’Iraq; gli svantaggi invece derivano dall’eccessiva frammentazione che il federalismo comporta in un paese con forti pulsioni alla secessione, al terrorismo settario e alle ingerenze straniere dei vari attori regionali, senza dimenticare il ruolo fortemente deleterio dell’intervento occidentale del 2003.

L’IDROPOLITICA DELLA TURCHIA
di Francesco Ventura
Il controllo delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate da parte della Turchia può conferire ad Ankara il ruolo di serbatoio idrico del Vicino Oriente, riequilibrando il potere derivante dal possesso degli idrocarburi degli Stati arabi. La nuova geopolitica turca, così come interpretata dall’attuale Primo Ministro turco Ahmet Davutoglu nella sua opera Profondità strategica. Il ruolo internazionale della Turchia, trova nello sviluppo del Progetto dell’Anatolia Sudorientale (GAP) uno strumento per aumentare il proprio peso specifico in tutta la regione. Uno strumento di medio-lungo periodo che, vista la crescente scarsità idrica, sarà sicuramente cruciale nel futuro prossimo.

NUOVE FORME DI POLITICA MIGRATORIA
di Gabriele Abbondanza
L’attuale scenario internazionale presenta una lunga lista di aree critiche, alla base di un rinnovato insieme di flussi migratori irregolari. Italia e Australia sono due paesi che, nonostante le evidenti differenze culturali e la distanza geografica, risentono in maniera simile di tali fenomeni, in particolare dell’immigrazione illegale via mare. Il presente saggio si propone di approfondire le politiche migratorie dei due paesi, radicalmente diverse per mezzi e scopi, per poi auspicare la combinazione delle pratiche migliori di entrambi i sistemi, proponendo l’idea di una “Soluzione Mediterranea”.

 

Interviste

INTERVISTA A TOUAMI GARNAOUI
a cura di Anna Maria Turi

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